Clandestini, merce di scambio per la Libia
I quasi 200 clandestini dispersi che fluttuano fra le acque a largo delle isole Kerkennah sono insieme il tragico e il senso pratico di quel pietoso e vano pellegrinaggio che è il tentativo di immigrazione illegale. La tragedia, ormai, la racconta, ogni volta, il destino agghiacciante che li aspetta in mare. Quarantuno i superstiti del naufragio di venerdì su 250 imbarcati dei quali solo 12 cadaveri, fino all'altro ieri, sono stati ripescati. Tra i sopravvissuti, cinque ore in acqua, nuotando in attesa dei soccorsi, a 60 chilometri dalla costa tunisina, quattro donne, una incinta, e tutti ragazzi giovani, al di sotto dei trent'anni. Provenienti dal Mali, dal Ghana, dalla Somalia, dall'Egitto, dal Marocco e della Tunisia, rifocillati a Sfax, nel centro di accoglienza allestito presso la Guardia nazionale e con l'unica probabile prossima destinazione: ritornare da dove sono partiti, la spiaggia di Zouara, in Libia. Da dove, forse, ritenteranno la fuga in mare per arrivare. O per morire anche loro. Perché nessuno, probabilmente, li fermerà. I clandestini, in fondo, sono una risorsa. Lo sono per quei Paesi, emergenti o in via di sviluppo che con l'euro, o meglio con l'Europa cercano un potere di scambio. Il libico Gheddafi non mira a fare centro quando ammonisce Bruxelles, sostenendo che il prezzo degli immigrazione illegale è nel borsino degli accordi di cooperazione fra i Paesi africani e l'Ue. Traslitterato dall'arabo in caratteri europei tintinna chiaramente come il ghiaccio nel cristallo: senza accordi nessun controllo. Per non contare l'ingombrante embargo che ancora pesa sulla testa e sull'economia del colonnello libico. E fa da semaforo verde ai natanti sgangherati che salpano stracarichi di anime disperate. Verso l'Italia, adesso più che mai, giacché l'ora del semestre italiano di presidenza sta per scoccare. Le rotte via mare allora si ridisegnano e questa volta il sospetto è che non siano gli «harquan», gli organizzatori di espatri clandestini a destreggiarsi con bussola e timone. Ma forse il disegno è politicamente orientare o lasciar fare, sia ai «buoni» che ai «cattivi». E tra i «buoni» in tema immigratorio e di pattugliamento coste la Tunisia in questo periodo detiene prestigiosi primati. Che ostenta con orgoglio e lungimiranza europeista. Sicché se fino a qualche mese fa gommoni e motoscafi veloci (in meno di due ore raggiungevano Pantelleria) erano ancorati lungo le coste di tutta la penisola di Cap Bon, ora gli stessi scafi appaiono «ostentatamente in secco». Con i motori protetti perché non in uso. Il messaggio è chiaro: la Tunisia reprime e non favorisce il traffico via mare di clandestini. Pattuglia, come da accordi, e come può, le coste, rispetta i patti e non ultimo, attende fiduciosa il suo incremento di quote nel decreto flussi per l'immigrazione legale. Scolaretta modello del Mediterraneo, trae in salvo i naufraghi di venerdì notte a largo delle sue coste, rilancia il drammatico evento attraverso la Tap, l'agenzia di stampa locale, con una tempistica inconsueta e, lodevolmente non cita neanche la vicina Libia quale luogo di imbarco, limitandosi a un più generico «Paese vicino». Lo stesso Paese che gioca invece da «cattivo». Ma, di fatto, i libici per primi hanno seri problemi di ordine pubblico dovuti ai continui flussi terrestri di immigrati subsahariani, arrivati attraverso vie carovaniere e che, in attesa di trovare l'imbarco, stazionano e delinquono fra Nalut, villaggio dell'entroterra poco distante dal confine tunisino, e l'area costiera intorno a Zarzis. Dove compiono atti di pirateria. Cosicché, per la Libia lasciar mettere in mare i barconi vecchi, stracarichi, non manovrabili e che spesso affondano è una possibile soluzione. Ancor più se i clandestini diventano una preziosa risorsa, un fiorente business con l'Europa, ma che, diversamente dall'oro nero, si paga per non avere.