di GIANNI DI CAPUA MILANO — Ne ha avute per tutti Silvio Berlusconi, nella sua dichiarazione ...
per Carlo De Benedetti, suo avversario storico; per la Procura di Milano; per Stefania Ariosto. Si parte dalla vendita Sme nell'85 a De Benedetti. Ha depositato una lettera dell'allora capo dell'ufficio legislativo del Ministero delle Partecipazioni Statali, il quale afferma che l'accordo tra Prodi e De Benedetti «non rispettava le procedure previste», che il presidente dell'Iri «non aveva il potere necessario per impegnare l'Ente». Poi un'altra lettera, in cui compare l'ombra delle tangenti: quella del professor Francesco Forte, ex ministro delle Politiche comunitarie del governo Craxi che ha allegato un articolo di Critica Sociale con un racconto di Craxi. In quell'articolo del direttore Stefano Carluccio si fa riferimento a un fatto che Forte aveva appreso dallo stesso leader del Psi: «L'ing. De Benedetti aveva in precedenza erogato alla Dc una robusta dazione di denaro, probabilmente per la campagna del 1983 e, pertanto, reputava di aver ottenuto il titolo per comperare l'impresa pubblica al modo in cui Totò pensava di poter comperare brevi manu il Colosseo». Per comprovare come, a suo avviso, la vendita del comparto alimentare dell'Iri non fosse stata una vendita, «ma una svendita». E a Carlo De Benedetti ha rivolto parole sferzanti: «Vorrei aggiungere altre cose sull'abitudine dell'ingegner De Benedetti a non dire la verità, ma la mia posizione istituzionale mi consiglia di astenermi». Una «posizione istituzionale» che il premier ha rimarcato più volte nel corso della deposizione, ricordando come il 50% degli italiani gli abbia conferito la responsabilità di governare il Paese e come sia necessario che vengano ammesse le prove da lui chieste «perché non rimanga nemmeno un'ombra» sull'operato del presidente del Consiglio. Ha chiesto che vengano sentiti tutti e 15 i giudici che affrontarono la causa che vide opposta la Cir di De Benedetti e l'Iri in ordine alla vendita della Sme in tutti e tre i gradi di giudizio. Giudici che fecero sentenze «assolutamente legittime e logiche», tanto che «nessuno le criticò». Nei vari collegi, secondo Berlusconi, ci fu «concordia decisionale», come raccontato ai suoi legali dal presidente della Corte d'appello di Roma. «Nessuna pressione, nessuna interferenza», tanto meno riconducibile alla sua persona e al suo gruppo. Perché quindi questo processo «senza morto, senza arma del delitto, senza motivazioni» ebbe origine? ha chiesto Berlusconi. Dalla fervida fantasia di Stefania Ariosto? Berlusconi ha parlato anche di lei: l'ha descritta assediata dai creditori, dalle banche, sull'orlo del fallimento, e, per lei, Procura e Guardia di Finanza avrebbero eretto una «turris eburnea», una sorta di impunità. «La signora Ariosto aveva mille e più motivi - ha detto Berlusconi - per cominciare un azione delatoria e calunniatoria». Con «una tecnica propria dei mitomani» la Ariosto sarebbe solita prendere particolari concreti per poi stravolgere una vicenda: come i gioielli che la donna dice di aver visto nel negozio del gioielliere romano Eleuteri, destinati ai magistrati in odore di corruzione. Berlusconi ha spiegato che era solito regalare gioielli, ma alle mogli dei funzionari del gruppo. Il premier poi ha cercato di smantellare l'inchiesta, a partire dalla bobina ormai famosa con l'intercettazione del bar Mandara tra Renato Squillante e Francesco Misiani, già oggetto d'inchiesta della procura di Perugia. Ha denunciato la «sparizione» dei verbali dei magistrati romani interrogati dall'ex pm Paolo Ielo «che ha impiegato molti soldi dello Stato che appartengono ai cittadini». E gli rimane la convinzione che in questi ultimi sette anni su di lui sono stati gettati «quintali, tonnellate di fango».