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VOTANTI: 25,7 per cento; spesa sostenuta dalla comunità: 73 milioni circa; risultato: nulla se non, politicamente, ...

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Ora Prc, Verdi e Cgil, fra i principali sostenitori del referendum per l'estensione a tutti i lavoratori dipendenti delle garanzie dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, sono impegnati in una difficile analisi del voto, per cercare magari di dimostrare che in fondo non hanno perso. Secondo stime di massima e non ufficiali che si facevano ieri al ministero dell'Interno dove la macchina del voto è ovviamente conosciuta alla perfezione, le giornate referendarie di domenica e lunedì sarebbero costate agli italiani circa 33 milioni di euro per i compensi ai presidenti e agli scrutatori dei seggi, mentre altri 40 circa sarebbero andati per tutte le altre spese varie come la stampa delle schede. Ovviamente la democrazia non ha prezzo e va comunque e sempre difesa nelle sue manifestazioni. Però le critiche ieri non sono mancate. Secondo il vicepresidente dei deputati di FI, Antonio Leone, la consultazione è stata fatta ponendo un modo strumentale un problema serio e alla fine «i cittadini pagheranno i costi di questi due inutili referendum. Soldi della collettività che, invece di essere buttati via, potevano essere utilizzati in modo migliore». Quanto agli effetti politici nel merito delle questioni, il dato dell'affluenza alle urne mette le ali a quanti erano contrari. «Con la bassissima partecipazione al referendum sull'articolo 18 - dichiara il ministro del welfare Maroni - è stato spazzato via definitivamente il fondamentalismo cofferatiano. Si rinnova l'impegno del governo e della maggioranza a proseguire sulla strada delle riforme già indicata con l'attuazione della legge Biagi. Finalmente possiamo togliere il freno a mano e andare "avanti tutta", al fine - aggiunge - di poter adeguare il nostro mercato del lavoro a quello dei più avanzati partner europei». Non solo il governo, ma anche tutte le organizzazioni imprenditoriali in ogni settore erano contrarie. Il presidente della Confindustria Antonio D'Amato commenta: ora si può affrontare «con serenità e serietà» il superamento in via sperimentale dell'art. 18 che era già stato concordato. «l'art. 18 - dichiara - ha rappresentato per molti e per tantissimi anni un vincolo alla crescita delle imprese». Bertinotti è in prima linea a subire la bufera. Prima tira in ballo i moderati di Ulivo e Ds, «Sergio Cofferati compreso», che hanno sostenuto l'astensione, contribuendo ad «un elemento conservativo delle politiche neoliberiste». Il dialogo tra Prc e Ulivo «dovrà necessariamente comprendere nel programma anche i temi di questo referendum», continua, così chiarendo che i rancori non bloccheranno le convergenze anche se il dialogo diventa più difficile e si trova in un «sentiero stretto». Da una possibile autostrada, dice, si passa a «un sentiero di montagna». Il presidente dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio dal canto suo se la prende con il «boicottaggio fatto di disinformazione e appelli all'astensione». Anche il leader della Cgil Epifani si difende, dicendo che l'esito del referendum è «un risultato importante» e «sicuramente non è stata una sconfitta», e aggiunge che «noi avevamo criticato l'uso del referendum per estendere i diritti e mi pare che questo voto lo confermi». Infinita la serie dei commenti. A sinistra il leader dei ds Fassino dice che il voto conferma l'inutilità dei referendum, la dalemiana «velina rossa» afferma che il vero vincitore è Cofferati che ha preso le distanze con l'astensione. Ma il socialista Del Turco rileva che oltre a Prc, Verdi, Pdci e parte dei Ds, ha perso anche l'ex leader della Cgil autore dello slogan sbagliato del quale sarebbe nato il referendum stesso. Simile l'analisi di Armani (An). Anche per lui hanno perso Bertinotti, Cgil e Cofferati e quest'ultimo anche se si è sfilato dallo scontro ha definito diritto inalienabile per i lavoratori licenziati quello al reintegro. Il vicepremier Fini dice che il referendum era sbagliato, il viceministro per il commercio e

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