IL LIBRO SU EVENTI E PERSONAGGI A OLTRE 50 ANNI DALLA PROCLAMAZIONE DEI RISULTATI DEFINITIVI DEL REFERENDUM DEL 1946
Il lungo viaggio di «Viva l'Italia, viva la Repubblica»
Era una bella giornata di sole, quella domenica di quasi sessant'anni fa in cui ci trovammo fra le mani una scheda grigiastra con due cerchi e due caselle da barrare alternativamente. Il cerchio a sinistra era sormontato dalla scritta «Repubblica» e mostrava il disegno a tratto di una donna turrita sullo sfondo di una sagoma della Penisola. Nel cerchio di destra, sormontato dalla parola «Monarchia», si vedeva uno scudo sabaudo con la corona reale e l'identico sfondo. Il ministro dell'Interno, Giuseppe Romita, aveva fatto realizzare la scheda con fair play, in modo che nessuna delle due parti risultasse privilegiata. Qualche forzatura magari se la permisero gli attivisti degli opposti schieramenti, svolgendo in vigilia elettorale una campagna frenetica con il sistema della propaganda porta a porta. Elevatissimo, soprattutto nelle zone rurali, era il numero degli analfabeti. Poiché lo scudo sabaudo aveva una croce e la donna turrita no, gli imbonitori monarchici tendevano ad avallare l'idea che si trattasse di fare una scelta religiosa, di schierarsi con i timorati di Dio o con i senza Dio. Dal canto loro, i più disinvolti attivisti repubblicani, quando si confrontavano con interlocutori inconvincibili, provavano ad azzardare che la donna turrita altri non fosse che la sovrana madre, la regina Elena del Montenegro. A Roma i raduni più importanti si svolgevano per i fautori della Repubblica in piazza del Popolo e per i monarchici in piazza del Quirinale o in piazza SS. Apostoli. Ma poi la sera, fino a ora tarda, si proseguiva con i minicomizi degli «agit-prop», abbreviazione di agitatori propagandisti, che radunavano gruppi di passanti sotto la galleria Colonna, dibattendo i sì e i no della scelta istituzionale. Gli «agit-prop» più abili e agguerriti erano i comunisti, che avevano frequentato la scuola professionale del Partito ai Castelli Romani. A conclusione, a notte fonda, si improvvisavano cortei, diretti verso i palazzi del potere: fra i filorepubblicani spiccava un marinaio munito di tromba, che dava la carica con un vivace accompagnamento di squilli. Le mete che si cercava di raggiungere erano il Quirinale e il palazzo del Viminale, dove la presidenza del Consiglio conviveva con il ministero degli Interni. La sede di palazzo Chigi era infatti adibita a ministero degli Esteri, essendo ancora tutto da costruire il megapalazzo della Farnesina. A causa di postumi della guerra, il 2 giugno centinaia di migliaia di elettori non poterono votare. Fra essi le popolazioni della Venezia Giulia, sottoposte alla giurisdizione diretta del governo militare alleato, o le masse di militari che dovevano ancora rientrare dai lontani campi di prigionia. Basandosi su queste assenze, e poiché ogni cavillo era buono, i filomonarchici, che si sentivano franare il terreno sotto i piedi, cercavano di sostenere l'invalidità di quel referendum. Si poteva obiettare che, se quegli italiani non c'erano, la colpa era proprio del re, che insieme al fascismo li aveva mandati allo sbaraglio. E infatti basterà poi ascoltare i rimpatriati della campagna di Russia per capire che i loro giudizi su casa Savoia e sul duce erano tutt'altro che benevoli. Nacquero anche curiose polemiche su assenze dal voto del tutto insignificanti dal punto di vista numerico, ma che ponevano piccoli problemi morali. Non potevano votare per esempio i gestori di case di tolleranza, perché il loro tipo di attività commerciale li privava dei diritti civili. A Roma le case erano diciotto e facevano affari d'oro: c'erano quelle di lusso in via degli avignonesi, via Fontanella Borghese, via Capo le Case, dove si pagavano un migliaio di lire, e quelle economiche in via Mario dei Fiori, via del Pellegrino, via Laurina, dove la tariffa scendeva a 500 lire o anche meno per la prestazione «semplice». Quel che è certo, tornando a quella giornata di caldo sol