
Foibe, l'esule Sicconi: “Oltraggio a Basovizza? Sono stati gli eredi di chi ci strappò dalla nostra terra”

I fatti storici che si intrecciano alle memorie di Ottavio Sicconi, esule istriano nato 94 anni fa a Parenzo (nella provincia di Pola) e adottato dalla città di Latina dopo l’invasione dei partigiani jugoslavi di Tito, sono inoppugnabili. «È vita vissuta: la mia è una storia italianissima, abbiamo lasciato l’Istria in onore della nostra italianità», scandisce. La sua era una famiglia di «piccoli possidenti» che, così come buona parte della popolazione, si manteneva grazie alla vendita della malvasia a clienti di Udine, Gorizia e Venezia e che, però, si è ritrovata nella condizione di «fare la fila per una tazza di caffè al campo profughi». Oggi Ottavio, socio storico dell’Associazione Venezia Giulia e Dalmazia, forte dell’amore dei figli Marco e Matteo, crede ancora nel valore del racconto ma definisce il clima attuale «molto preoccupante». Non è un caso che abbia investito in una libreria e che abbia accolto volumi grazie ai quali tenere traccia anche dell’esodo giuliano dalmata.
La foiba di Basovizza è stata vandalizzata con scritte in lingua slava. Che effetto fa, nel 2025, leggere il motto titino “Trieste è nostra”?
«È allarmante, si deve indagare. Sono gli eredi dei divorzisti, dei fascisti della ex Jugoslavia che ci hanno strappato dalla nostra terra. La mia, come quella di molte persone, è una storia italianissima. Né fascista né comunista. Abbiamo pagato sulla nostra pelle la decisione di essere venuti via per il regime comunista di Tito e per aver difeso l’italianità dell’Istria e della Dalmazia».

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Si parla di Ricordo e di memoria perché, per troppo tempo, questa tragedia è stata coperta o raccontata male. È stato difficile testimoniare?
«Molto. Mi ricordo la guerra, i mitragliamenti, la mia casa distrutta e poi la scelta, con tutte le sue difficoltà. Ho lasciato Parenzo, dove sono nato, nel 1948. Avevo solo 18 anni. La mia famiglia ha optato per l’Italia. Quelli che approvavano il regime, invece, sono rimasti».
Perché i partiti di sinistra restano in silenzio?
«Perché quello di Tito era un regime comunista e Tito, da alcuni, è stato addirittura considerato un eroe».
In alcune scuole c’è ancora chi ostacola il racconto di questa tragedia e chiama «fascisti» tutti coloro che vogliono ricordare.
«Ho aperto la libreria perché i libri sono il simbolo per eccellenza della libertà. Chi si oppone al Ricordo, non conosce la storia o la vuole dimenticare. Noi non eravamo fascisti, la nostra “colpa” era quella di essere italiani. I titini non consideravano il partito, erano comunisti anti-italiani».

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Qual è il ricordo che in maniera ricorrente si fa spazio tra i suoi pensieri?
«Il dolore fortissimo. Eravamo piccoli possidenti: facevamo il vino e vivevamo con quello. Ma da avere una casa, uno spazio in campagna e gli animali, ci siamo ritrovati in un campo profughi, buttati sulle brande o sul cemento, a fare la fila per prendere il caffè o la minestra. Io ero solo un ragazzo».
Ha conosciuto persone che sono state infoibate?
«Altroché! A Parenzo ci si conosceva tutti. Le racconto due storie. La prima è di un maestro siciliano che nella mia cittadina ha trovato l’amore e che è stato infoibato perché italiano. La seconda è quella di Norma Cossetto. Era l’anno scolastico 1942-1943. Lei, prossima alla laurea, era stata contattata dal preside e aveva preso il posto di un professore chiamato alle armi. L’ultimo giorno di scuola, prima di salutarci, ci offrì un gelato e ci disse che ci saremmo rivisti ad ottobre. Non andò così. Era di idee italiane, una patriota e per questo venne torturata, violentata e gettata in una foiba ancora viva».
È tornato a Parenzo?
«Sì, certo. Quasi tutti gli anni».
E Latina cosa rappresenta per lei?
«È comunque casa: qui ho creato la mia famiglia e aperto la mia libreria. E mi auguro che proprio i libri e i giornali possano aiutare a non dimenticare. Io vado spesso a raccontare la mia storia nelle scuole perché ho fiducia nei ragazzi».

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