Monsignor Suetta: “Siamo diversi dall'Islam. L'immigrazione indiscriminata è sempre e comunque negativa”
I disordini del Capodanno milanese, tra insulti all’Italia e grida di «Allah akbar», hanno riportato d’attualità il tema dell’integrazione degli immigrati islamici. Un problema che torna a ripresentarsi sempre più frequentemente e che interroga anche la Chiesa cattolica. Ne abbiamo parlato con chi di frontiere se ne intende, essendo vescovo di Ventimiglia – San Remo: monsignor Antonio Suetta.
Eccellenza, diversi commentatori hanno ridotto a «ragazzate» i comportamenti visti a fine anno nel capoluogo lombardo. Giova davvero all’integrazione questa tendenza a minimizzare quando c’è di mezzo l’islam?
«Non sono d’accordo con chi minimizza. Mi pare lo stesso atteggiamento di chi, dal punto di vista religioso, sostiene che tutte le religioni sono uguali. Quest’affermazione va di moda ma è un insulto all’intelligenza: come si può pensare che identità diverse tra loro siano uguali? La fede parla alla ragione e dire che una religione vale l’altra vuol dire non dare il giusto valore all’esperienza religiosa stessa».
Nel 2000 il cardinale Giacomo Biffi fu criticato quando invitò le autorità civili a prestare «particolare attenzione» all’integrazione dei musulmani e a «preoccuparsi seriamente di salvare l'identità propria della nazione» ospitante. Si può dire che aveva ragione?
«I fatti dopo di lui confermano che la sua visione era corretta. Tra cristianesimo ed islam non c’è prossimità né tantomeno identità. Esistono, invece, molte differenze che vanno riconosciute se si vogliono mettere le basi di un dialogo vero. La nostra fede si fonda sul mistero dell’incarnazione di Dio, mentre nella visione teologica islamica questo è assolutamente incomprensibile. Di conseguenza, da parte loro c’è un modo di vedere Dio nel rapporto con l’uomo che è lontanissimo dal nostro. La loro visione teologica è completamente diversa da quella cristiana che è a fondamento della civiltà occidentale. Questo ha conseguenze concrete nel modo di concepire la gestione dell’esperienza umana e sociale, determinando significative differenze in molteplici ambiti».
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Lei che è un vescovo «di confine», crede che l’Italia possa ancora permettersi l’immigrazione indiscriminata?
«L’immigrazione indiscriminata è negativa ovunque e comunque. Non è una buona soluzione per chi accoglie né per chi viene accolto. Un conto è l’emergenza e il pericolo di vita quando si configurino realmente. Non si può tuttavia pensare che l’accoglienza possa limitarsi al solo ingresso in uno Stato o all’assicurazione degli elementi essenziali per vivere. In un contesto sociale vanno fatte valutazioni oggettive considerando l’incidenza del fenomeno su tutti gli aspetti».
Quindi la Chiesa non predica l’accoglienza a tutti i costi?
«Il Catechismo parla del "rispetto dei doveri dei migranti nei confronti del Paese che li accoglie" e menziona le condizioni di coloro che accolgono. È una questione di proporzione, nessuna delle due parti deve perderci».
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Lei crede che esista una soluzione?
«Non ci si può fermare all’accoglienza solo per situazioni di emergenza. Serve l’integrazione. In una società globalizzata e multietnica è necessario trovare delle modalità che consentano una convivenza pacifica. Io la chiamo la convivenza da condominio: se abitiamo in tanti nello stesso luogo, dobbiamo trovare dei riferimenti comuni che ci consentano di vivere in pace e fare cose buone insieme. Non si può condividere scuola, lavoro, spazi e al tempo stesso avere un atteggiamento ostile rispetto a quelli che sono i tratti identitari del luogo che accoglie. Penso che sia necessario distinguere molto bene tra l’ideologia immigrazionista attualmente in voga (fa parte del "follemente corretto", per dirla con Ricolfi) e l’attitudine della carità cristiana, che mette al centro l’uomo nelle linee essenziali tracciate dalla Dottrina Sociale della Chiesa».