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Vittorio Feltri: quel Natale di abbuffate e fasti così lontano dalla Chiesa

Vittorio Feltri

Mi diverte molto leggere ogni anno i resoconti dei pranzi di Natale. Tre miliardi di spesa per farcire le tavole, 270 milioni versati solo in Puglia. Immagino pasti pantagruelici e panze molli che si adagiano su misere scranne domandando venia di tanta abbondanza mentre alle spalle si consuma un rituale scialbo: parenti addobbati come palline colorate che manderesti a fanculo e invece devi ospitare, discorsi soporiferi mischiati a fragor di frutta secca e zie attempate che si lanciano in funambolici discorsi sull’anno che verrà ricoprendo i nipoti di carezze e doni fatui. Non è questione geografica (metto le mani avanti) e non siamo messi meglio nelle regioni del nord: tutte le persone che conosco hanno trascorso in media dalle sei alle sette ore a tavola anelando la fine della pena.

Qualcuno ci ha rimesso in salute vomitando arrosticini e cappelletti nelle toilette di casa, qualche altro ha votato l’anima a bacco e si è dissolto in una solenne dormita. Considerando quello che mangio io normalmente- spizzichi di cibo più che vere pietanze, nonostante il lauto pranzo servito anche a casa mia - mi pare che il rituale sia una colossale boiata. Ma rende abbastanza bene l’idea di che popolo siamo.

Mangiatori incalliti o abbuffoni senza Dio. Il lievitare della pancia e dei consumi si accompagna infatti a uno svuotarsi delle chiese e delle coscienze con cui contorniamo questa nobile festa. Si intende: la notte di Natale sono buoni tutti di fare una capatina in parrocchia a lavarsi l’anima e il corpo da pensieri turpi e vizi peregrini, ma il bilancio dei restanti 364 giorni dell’anno è a dir poco sconfortante. Lo dico a beneficio di quanti, dalla punta dello stivale fino a Bergamo e oltre, fanno passare le festività per un momento sentito e sincero di riconciliazione con Dio. Dati recenti e abbastanza eloquenti raccontano di una disaffezione ai sacri paramenti senza precedenti: i cosiddetti praticanti regolari si sono dimezzati in 20 anni, dal 36% che erano nel 2001 al 19% del 2022, mentre i non praticanti sono raddoppiati. Solo uno su cinque va a messa una volta alla settimana (e a fatica). Di più è merce rara. Fiacchi i genitori nel persuadere i figli a rendere omaggio a Dio e restii i ragazzini a farsi trascinare per la collottola all’altare.

Anche le donne che un tempo si immaginavano pie e devote più dei maschi di famiglia, oggi hanno raggiunto la parità dei sessi sotto il cupolone, e se ne fregano dei kyrie eleison e di baciare i piedi alla Madonna. I sociologi parlano di sbiadimento dei riti religiosi e di influenza ormai statisticamente debole della fede cristiana.
L’unica esperienza collettiva della chiesa resta quella dei funerali e dei matrimoni, i primi molto più frequenti e frequentati delle nozze e anche meno allettanti. Non ne faccio un dramma personale: io per primo non credo in Dio e non mi sottopongo al supplizio di andare in pellegrinaggio all’altare per farmi infinocchiare da un sacerdote imbolsito che crede di avere la verità in tasca e pure il perdono da ogni peccato. Però mi domando: cos’è questa moda di omaggiare il Natale con decori, aperitivi e melodie nostalgiche se frega nulla della chiesa, di papa Francesco e di un Gesù che si è fatto uomo e si è fatto crocifiggere per un’umanità ingenerosa e peccaminosa?

Colpa forse dei preti che stanno rintanati nelle chiese a contare i grani del rosario e non hanno capito un tubo di questa generazione iperconnessa, iper tecnologica e pure ipertesa? O colpa del diavolo che s’è incaponito e si è infilato in ogni pertugio della società rendendola futile, leggera e beatamente incosciente? Non lo so proprio. Ma assisto al declino, rammaricandomi per quei pochi che hanno fede sincera e per quel poveretto di Papa Francesco che affronta le fatiche della vecchiaia e dell’età senza lamento alcuno pur di parlare ai fedeli e salvare le anime perse. Anche l’anno giubilare che è cominciato il 24 dicembre con l’apertura della Porta Santa, recherà forse qualche soldo a Roma capitale ma nulla restituirà alla chiesa in termini di affezione alla parola di Dio. Non conosco la materia e non mi inoltro in sentieri impervi. Mi limito a constatare i fatti.

Al di là della dubbia capacità di Gualtieri di gestire l’afflusso imponente di turisti ripulendo Roma dal traffico, dai topi, dai rifiuti maleodoranti, e da quell’idea malandrina che la vita sia un misto di caos e abbacchio, la gente non sente il bisogno di redimersi. E questa pratica di levare i peccati, per sé e per le anime del purgatorio, compiendo pellegrinaggi a una chiesa benedetta o in vaticano, o facendo un’opera di bene e una donazione, mi pare avulsa dal contesto attuale in cui la gente non si confessa mai oppure va al confessionale come dallo psicologo: per sfogare i problemi e tacere le malefatte.

«Potranno avere l’indulgenza ovvero la remissione dei peccati i fedeli veramente pentiti e mossi da spirito di carità sincero»: sfido a trovarne uno nel raggio di un miglio. Non è tutta colpa dei cristiani. C’era un tempo in cui la chiesa andava per le strade a parlare ai fedeli. I preti suonavano alle porte e benedicevano le case ogni mese di dicembre. Era un momento toccante e antico.

Ma era vicinanza al popolo della chiesa: il don in tonaca nera fermo in piedi nella stanza più bella della casa e la famiglia raccolta attorno a lui in preghiera. I fedeli veri si sentivano sollevati. I furbetti uscivano allo scoperto e domandavano venia al Signore. Oggi mancano i preti.

E quei pochi che ci sono non fanno la fatica di andare per le case aportare il verbo divino. Ne consegue che i fedeli vanno a ramingo, il cristianesimo tentenna e l’islam avanza e ci inghiotte. Poi ci stupiamo se nelle scuole non si prega più neanche per scherzo ma si festeggia sereni il ramadan. Comunque tranquilli. Passata la festa gabbato lo santo. Il Natale è trascorso con le sue abbuffate e i suoi fasti. E avremo tempo un altro anno ancora per riconciliarci con Gesù e i santi del paradiso.