in coro

Ilaria Salis e Zaki, su Cecilia Sala la doppia morale di chi solidarizza con gli amici di Hamas

Mira Brunello

Il nemico del mio nemico diventa mio amico. Sarà per questo che le piazze rosse non si sono mai particolarmente indignate contro il regime degli ayatollah o a difesa delle centinaia di giovani donne uccise ed incarcerate in Iran. Niente di niente, nessun appello, nessuna esibizione di artisti ed intellettuali amati dalla sinistra, un silenzio di tomba. Più materia di editoriali che di vibranti proteste magari in qualche università, con tanto di bandiere date alle fiamme, e slogan incendiari. Eh si perché la repubblica islamica è da sempre il regista delle tensioni in Medio Oriente, la cassa di Hezbollah ed Hamas, loro si, eccome amiche delle piazze, con settimanali manifestazioni non autorizzate (ma benedette da Fratoianni e da Bonelli) per denunciare i crimini di guerra di Tel Aviv, e tanti saluti al 7 ottobre, «se lo sono voluti».

 

Così due dei più celebrati testimonial delle battaglie internazionaliste, vere e proprie icone della gauche, Ilaria Salis e Patrick Zaki, chiedono si la liberazione della giornalista Cecilia Sala, ma zitti e mosca sull’Iran. Non lo stesso metro di giudizio che hanno usato in questi mesi per contestare Israele, tanto per dire. Una deformazione, la loro, condivisa da tanti maître à penser di casa al Nazareno, «Netanyahu assassino», ma lasciamo perdere l’Ayatollah Ali Khamenei, tanto amico dei miei amici.

Flebili proteste per carità, il classico «compitìno» fatto controvoglia, senza la sacra passione che si respira nei sit in difesa, di fatto, dei terroristi di Hamas. La controprova? Nella mobilitazione lanciata mesi fa dal Partito Radicale contro l’Iran, le adesioni della sinistra si sono fatte desiderare, il tema non interessa, non scaldai giovani, si dice.

 

Neanche il movimento «donne, vita, libertà», la protesta massiccia di giovani donne a Teheran, ha aperto il cuore delle piazze. Nessun tweet di Ilaria Salis o di Patrick Zaki, gli ayatollah non si toccano. Quindi per carità, solidarietà alla brava giornalista del Foglio, ma sfumiamo sul nome del Paese che l’ha incarcerata.