speleologa intrappolata
Ottavia Piana, Feltri: compiere due volte il "folle volo" è da incoscienti
Ottavia Piana non è stata salvata da un dio buono e misericordioso che ha guardato giù e l’ha graziata. Ma da 159 uomini che rischiando la pelle hanno fatto la spola dalla terra agli inferi per imbragarla, curarla, scavare buche e cunicoli là dove il buio incombe e tutte le umane certezze si sgretolano. Lo dico a uso e consumo di chi applaude giustamente l’eroico salvataggio ma per conformismo o piaggeria del piffero non riesce a dire che l’impresa della speleologa bresciana ha rappresentato la summa dell’imprudenza. Ho seguito le gesta dei soccorritori. E sono stato in apprensione per quella giovane sepolta 4 giorni nei meandri della terra con il corpo che le doleva e il morale avvizzito in un crogiuolo di umido e buio. Il dolore fisico, il pensiero dei propri cari, e poi la roccia che cede in un tonfo sordo azzerando i sogni, il sorriso, il coraggio. Cinquecento metri di terra sopra la testa di una grotta che soloil nome fa paura (Abisso Bueno Fonteno), con il cuore che preme nel petto mortificato... finiranno il buio, i brividi, la solitudine? Solo l’idea mi sgomenta. Per giunta, tutto uguale a un anno fa o quasi.
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Caduta-tormento-soccorsi imponenti. Due giorni per tirarla fuori, anche allora, e forse in un angolo della sua testa si era ripromessa di non scendere di nuovo. Invece eccola lì. Stesso errore e stessa tragedia, scampata grazie a soccorritori benedetti che l’hanno strappata alla morte un’altra volta e non si sono neppure lamentati. Non ha voluto foto all’uscita della grotta, la nostra speleologa, refrattaria al clamore e ai riflettori: e cosa si aspettava dopo il polverone sollevato? Una breve nelle pagine locali? I colleghi, la famiglia, tutti adesso la difendono. Qualche esperto ha provato a spiegare: «Facevamo la mappatura di nuove diramazioni prima sconosciute… un risultato scientifico incredibile». Comprendo la difesa strenua di un'amica che ha rischiato di lasciarci le penne e l’umano ardore di varcare i propri limiti. È dai tempi di Ulisse che ci inerpichiamo in sentieri inesplorati per l’avidità di conoscere. Ma compiere due volte il «folle volo» che redarguì persino Dante è da incoscienti. Non si torna sul luogo del delitto. Non si torna nella grotta in cui si è caduti già una prima volta, mettendo a rischio la propria vita e quella dei compagni. Cinquecento metri nella pancia della terra. Chilometri di gallerie percorse tra parole, pianti e incoraggiamenti. Ma la verità è che poteva accadere di tutto. E che decine di uomini si sono messi in gioco per l’imprudenza di una.
Cara Ottavia, devi saperlo: la terra è matrigna e non guarda in faccia l’età anagrafica, l’innocenza, l’ardore della passione. Più distruttiva e leopardiana nelle sue manifestazioni che madre dolcissima e accudente «che anche nello spengerci sembra che ci culli e addormenti». Forse non ci saranno costi per la collettività, visto che il gruppo di speleologi ha una sua assicurazione che copre tutto; ma l’impegno di risorse è stato immane e sfido chiunque a dire il contrario. 159 uomini – è bene ribadirlo - cui vanno aggiunti altri 118 tra vigili del fuoco, carabinieri e personale medico mobilitato nei vari ospedali. Non chiamarla imprudenza, o dipingere foschi scenari patriarcali (ormai il patriarcato è buono per tutto) perché qualche commentatore impulsivo ha consigliato alla signorina di starsene a casa anziché andare a esplorare grotte impervie e maledette, mi pare lontano da ogni buonsenso. Le cronache sono piene di ardimentosi che si inerpicano su strade tiranne per il gusto di andare e oltrepassare limiti. Quest’estate perirono almeno cinque persone sulle montagne, tutti giovanissimi e tutti esperti, ma caduti in imprese evidentemente troppo grandi per loro. E leggiamo ogni giorno di avventurieri stolti che muoiono nei modi più scemi per la sete di scattare una foto in un luogo proibito. Sul precipizio della montagna, sul cornicione del tetto, davanti al mare in burrasca che sputa bile e chiede vite.
Rimasi colpito, poco tempo fa, dalla foto di due ragazzi di Torino che con il fiume Dora in piena e la città annichilita dalla tempesta si facevano una serenata d’amore fregandosene dell’acqua che ingurgitava tutto e dei poveri soccorritori che si dannavano per salvare la pelle ai noi comuni mortali. Vi pare buonsenso? Ho visto qualche numero: nel 2022 il soccorso alpino ha effettuato 10.367 interventi per incidenti, malori, imperizia o dabbenaggine dei malcapitati. Buona parte con elicotteri, altre volte con unità cinofile. 41mila tecnici volontari coinvolti. 20 euro al minuto le operazioni di elisoccorso, 50 all’ora quelle da terra. Ma non sono i soldi il punto. Ho come l’impressione che sia andata a farsi fottere la prudenza. Ridicolizzata, vituperata, considerata un procedere lento e circostanziato di ignavi incapaci di decidere e fare. Se sei prudente sei un pavido che tiene le terga al caldo per non sporcarti le mani. Eppure nel cattolicesimo la prudenza è una delle quattro virtù cardinali e aiuta l’uomo a distinguere il bene dal male. Auriga virtutum ovvero guida delle virtù dell’anima razionale che discerne i comportamenti e sceglie quelli meno rischiosi per sé e per gli altri. Andrebbe insegnata nelle scuole.
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Raccomandata ai giovani quando escono la sera. Ricordata agli adulti che si sentono fanciulli e fanno ancora gli scemi. E ogni tanto invocata quando due ragazzini fuggono a un posto di blocco dei carabinieri e sfrecciano a 130 all’ora nella città piena di ostacoli e trappole prima di finire contro un muro. Prudenza come motto di vita ogni volta che ci muoviamo. Io per prudenza ho smesso persino di cavalcare. Avevo settant’anni e il timore di mettere a rischio la mia vita e cagionare sofferenza alla mia famiglia mi ha fatto desistere dal piacere immenso e dolcissimo che mi dava andare a spasso sul mio destriero. Per non dire della prudenza che dovremmo mostrare nel nostro mestiere, distinguendo le notizie vere da quella pratica becera di sbirciare dal buco della serratura, specie le storie di letto degli altri. Solo in una cosa mi difetta siffatta virtù e me ne fotto allegramente: la prudenza nel parlare. Quel che penso lo dico apertamente. A qualcuno darà fastidio forse. A qualche altro creerà scompiglio. Ma certo non scomodo nessuno e non costo soldi, rischi e fatica alla collettività.