il tempo di feltri

Vittorio Feltri: che brutta scuola, se dici "insegno" oggi ti insultano

Vittorio Feltri

Non me ne voglia il ministro Valditara se lo dico apertamente. Ma la scuola di oggi è mediocre. Professori poco appassionati, stipendi da fame e didattica lacunosa. Il lavoro di insegnante si è talmente svilito che se dici «insegno» ti danno del coglione. C’è stato un tempo invece in cui i professori erano molto considerati e la scuola una specie di tempio sacro: entravi bimbetto inerme e uscivi giovanotto capace di affrontare il mondo.

Ho ricordi vividi e stupendi dei miei anni di studio perché li ho amati moltissimo anche se la strada a volte è stata impervia. Il mio primo giorno di scuola elementare, per esempio, fu uno spasso. Vivevo nella via centrale di Bergamo. Mio padre era morto da poco, lasciando mia madre vedova e con tre figli. Capii subito la solfa: dovevo darmi da fare e uscire dal guscio. La scuola elementare era la Bernardo Tasso, a un chilometro da casa mia. Un edificio bellissimo e imponente con le finestre ancora perforate dalle mitragliate della guerra. Sorgeva davanti alla succursale della Notte, avrei dovuto capire subito che ero predestinato. Fatto sta che convinsi mia madre a farmi andare a scuola da solo, non ne volevo sapere di essere accompagnato. Presi la cartella, il sussidiario, e con il grembiule che mi dava il tormento e mi grattava le ginocchia mi recai a scuola. Inutile dire le scene strazianti a cui assistetti, decine di mamme che davano l’ultimo abbraccio ai loro pargoli prima del suono della campanella neanche li portassero al patibolo. Io mi informai presso qualche ragazzino più grande (già allora facevo domande) e fui indirizzato alla sezione che mi era stata assegnata. Il mio compagno di banco si chiamava Gamba, e in gamba lo era davvero.

 

La maestra invece era la signora Longhi, una donna grassa e assai gentile, capace di disegnare alla lavagna bellissime lettere in corsivo, il mio nome scritto da lei era pura poesia. Devo ammettere che l’esordio fu felice. Perché a differenza dei miei compagni di classe, tentennanti e imbranati, io ero già bravino a scrivere. E il merito era solo di mia zia Tina che mi aveva accudito nell’anno precedente la scuola, insegnandomi tutto quello che c’era da sapere del grande mistero dell’alfabeto. Mi ero rifiutato categoricamente di andare alla materna, il solo nome mi dava sui nervi, e per non rompere le balle a lei che era indaffarata passavo il tempo leggendo i giornali. La seggiola era la mia scrivania e lo sgabello la poltrona. Mi mettevo seduto e sfogliavo i quotidiani, ero incantato da quei titoli a caratteri cubitali, ma non capivo un accidente di quel che c’era scritto e andavo avanti e indietro dalla zia Tina a chiederle lumi. Lei comprese di non avere scampo e si mise con pazienza a insegnarmi. In breve tempo fui edotto. A scuola scrivevo pensierini graziosi e fantasticavo sul mondo, e il pomeriggio andavo all’oratorio con l’amico Gamba per giocare al pallone.

Le elementari trascorsero così d’un soffio, allietate anche da una personcina perbene come il maestro Natale Dolci, severo e competente ma con quella dolcezza di modi (solleticata forse dal cognome) che arrivava al cuore anche di un ribelle come me. Lui abitava in città alta e io a metà della salita. Non frequentavo più la Tasso ma l’Armando Diaz, che era lontana da casa e si poteva raggiungere solo col bus. Ogni mattina il buon Natale infilava il casco e gli occhiali e si metteva alla guida della lambretta rossa che aveva il sidecar e mi pareva meravigliosa. Lo vedevo arrivare da lontano e pensavo che se un giorno avessi fatto il maestro avrei voluto assomigliare a lui. Fermava la motoretta davanti a casa e mi caricava sul sidecar. Il tragitto era uno spasso. Sfrecciavamo come saette sull’acciottolato, io ridevo e lui mi chiedeva verbi e sintassi tra un sussulto e l’altro della strada.

 

Alle medie le cose si complicarono un tantino perché entrarono in gioco le ragazze e mi accadde una cosa ridicola. Ogni anno gli istituti della provincia facevano il concorso per il tema migliore. Ovviamente partecipavano tutte le classi compresa la mia. Non ricordo neppure cosa scrissi in quel tema, ma feci il compitino con diligenza e vinsi il concorso con mio grande stupore. Il prescelto però era anche il più sfigato. Perché doveva andare in tutte le aule a leggere il suo elaborato. Mi vergognavo come un ladro di quell’esibizione e frugavo nelle tasche dei calzoni alla ricerca della mia proverbiale spavalderia. Alla fine entrai in una terza media di sole femmine. Lessi d’un fiato e con passione e quando arrivai alla fine ci fu uno scroscio di mani che mi fece sentire meno scemo. Alzai gli occhi e mi guardai attorno: solo una fanciulla batteva le mani come alla Scala. Era Maria Luisa Trussardi. Elegante, composta, muoveva le dita con disimpegno e un pizzico di noia altolocata. Però era bellissima e rimasi folgorato. Ogni giorno finivo la lezione qualche minuto prima della campanella per andare all’uscita della sezione femminile e portarla a casa.

Si concluse così anche la terza media. Ma con mia madre vedova e tre figli da crescere la situazione economica non era affatto edificante... Decisi di cercarmi un posto di lavoro e venni preso come fattorino in un negozio di ceramica. Poi come aiuto commesso in un negozio di abbigliamento. Lì compresi che la vetrina è fondamentale. E se assembli male la mercanzia nessuno entrerà mai. A Bergamo c’era una scuola di vetrinisti serale, mi iscrissi e presi il diploma. Poi iniziai a lavorare come vetrinista. Lavoravo come un pazzo, giorno e notte, e facevo una montagna di soldi: due milioni di lire. Praticamente potevo comprarci un appartamento. Invece c’era questa brama che mi rodeva dentro di ricominciare a studiare. Ero da solo e non avevo aiuti. Andavo in biblioteca a Bergamo per trovare silenzio e libri gratis. Lì conobbi un monsignore che si chiamava Angelo Meli. Mi vedeva seduto al grande tavolo della sala di lettura, e provava curiosità per quella smania di conoscenza. Cominciai ad andare da lui tutti i giorni dalle 14 alle 17. Parlava solo il bergamasco e il latino e in latino chiacchieravamo del tempo e della vita. Recuperai gli anni perduti, e arrivai alla Maturità. Virgilio di Milano, scuola magistrale.

La prima prova d’esame fu il latino. Mi accomodo al banco e scopro che la versione è la stessa che ho fatto il giorno prima. Finisco il compito in 20 minuti netti e lo consegno.
Il prof mi guarda strabigliato: «Tu sei scemo a consegnare adesso». Non me la sentii di mentire, «l’ho fatta ieri professore, me la ricordo bene». «Certo che hai un bel culo ragazzo», mi congeda lui e se ne va ridendo. Bene anche le prove di italiano e storia ma la fisica e la chimica erano un dilemma. Però c’erano queste due giovani professoresse nella commissione: guardano i compiti e vedono che la media dei voti è altissima. Confesso la mia totale impreparazione convinto di andare a ottobre per riparare le insufficienze. Loro mi interrogano e mi dicono «vada tranquillo». Dopo 5 giorni escono i tabelloni. «Vittorio Feltri Maturo». Non credevo ai miei occhi.

Il resto del mio percorso scolastico fu una passeggiata. Mi sono iscritto alla Cattolica ma lavoravo già al Corriere. E quando andavo a fare l’esame il prof incuriosito mi faceva un sacco di domande sul lavoro e non si parlava mai della materia. Alla fine dell’esame poi mi diceva: «ho capito Feltri che non sa nulla, le do 23... le va bene?» «Anche 22!», rispondevo io entusiasta.

Questo per dire che la scuola mi è rimasta dentro. Ho cresciuto cinque figli e li ho mandati all’università. L’italiano mi ha dato un lavoro. Il latino lo parlo fluentemente, ho anche scritto un libro («Latino lingua immortale», edizioni Mondadori). Quanto al professore Natale dovete sapere che un giorno vergai un articolo su di lui, ricordando quei tempi lontani e tessendo le sue lodi. Mi contattò il figlio per ringraziarmi e mi disse «ci venga a trovare». Corsi a Bergamo e vidi il Natale. Smilzo, rugoso, 90 anni e il sorriso che era una carezza. Mi sciolsi in lacrime e lo abbracciai, e mi sentii di nuovo bambino. Ecco, una scuola così io non l’ho più ritrovata.