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Vittorio Feltri: le nuove grattinerie e quel poltronismo che affligge i giovani

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Vittorio Feltri
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Non mi sarei mai aspettato di vivere un’epoca in cui nelle grandi città si aprono "grattinerie" anziché panetterie. La gente entra nel negozio, si accomoda su un lettino e riceve una grattata di schiena e di testa da un perfetto sconosciuto che per due soldi accartocciati gli fa credere di tenere molto a lui e volerlo coccolare. Chi lo ha praticato, il grattino, e chi lo ha ricevuto spergiura che trattasi di una nuova frontiera del benessere. Si combatte lo stress e la sensazione mortifera di essere una monade senza affetti e gentilezze altrui. Polpastrelli che si arrovellano sulla schiena scansando brufoli e pelle unticcia come panacea di ogni catastrofismo. E non è neanche il lavoro più strano del mondo: c’è chi vende abbracci per strada, chi annusa olezzi di letame nei paesi di campagna, qualcuno assaggia tiramisù di pasticceria fino a lievitare come un pesce palla e farsi venire il diabete. Insomma, i casi sono due: o non c’è più la voglia di lavorare nel senso tradizionale del termine o si inventano professioni perché quelle tradizionali mancano.

 

Mi perdoni la grattineria, loro sicuramente hanno talento da vendere. Ma propendo per la prima ipotesi, manca la voglia. E l’assenza è palpabile nelle nuove generazioni. I giovani, di cui ogni giorno tessiamo le lodi, convinti come erano i nostri nonni di noi che salveranno il mondo e sbarcheranno il lunario, hanno il deretano mollemente adagiato sulle poltrone di casa. Anche quelli più motivati e talentuosi, che pur si laureano con voti da capogiro in università eccellenti, sono fermamente convinti che lavorare sia pratica importante ma non indispensabile al fine di una degna esistenza, e che lo stipendio se arriva bene se non arriva fa lo stesso. Lo vedo ogni giorno nel mio piccolo. Un tempo fare il cronista significava macinare chilometri slabbrando suole e sudando calzini bucati. Il capo alzava la cornetta (oggi il cellulare) e tu correvi per le strade con quella frenesia romantica, quasi un ardore febbrile, di inseguire la notizia ovunque essa fosse, persino nei bassifondi di periferia dove si trastullavano pantegane spelacchiate e tossici allampanati. Ora no, l’uscita dalla redazione non è contemplata. Si sta seduti per ore a fissare un computer sperando che ne escano notizie e titoli sbiaditi mentre si infilano caffè e chiacchiere col vicino di scrivania persuasi che quel rituale stantio significhi davvero immolarsi sul sacro altare dell’informazione.

Il pensiero social partorito da qualche leone da tastiera diventa l’oracolo di Delfi. E l’influencer con le tette al vento e le labbra a gommone, la fonte da cui abbeverarsi. I sabati sono sacri, le ferie estive pure, al punto che anche l’ultimo degli sfigati in cerca di un contratto da quattro soldi ti sbatte in faccia che il colloquio lo farà ma dopo il 24 agosto al ritorno dalla Grecia. Per chi è anziano come me e per qualche collega di mezza età la regola era presentarsi in redazione il sabato, la domenica e durante le festività. Ti sedevi sulla seggiola del pelandrone che era andato in vacanza e c’era caso che in due settimane diventassi più bravo di lui.

 

Ovviamente il male del poltronismo (intesa come arte di attaccarsi alla poltrona di casa e non quella del potere) non affligge soltanto la professione in disuso del giornalista. Non si contano i ristoratori che vagano per le strade di paese alla ricerca di ragazzotti da mettere a contratto. Offrono paghe invidiabili ma chiedono di lavorare la sera e se possibile nei week end, e non fanno in tempo a dire "end" che già si è creato il vuoto attorno a loro. Per non dire del mestiere dell’autista di bus. A Milano c’è la corsa a scampare il posto da vetturino nell’azienda dei trasporti pubblici nonostante i benefici vari e la patente pagata. E non credo che Roma, con i suoi autobus bollenti, sia messa molto meglio. Ovunque vai è una litania: manca lo spirito di sacrificio. E non nel senso cristiano di mettere il bene altrui davanti al proprio interesse, mi guardo bene dal predicozzo vescovile, bensì in quello di sacrificare tempo ed energie per realizzarsi nella vita.

Studi ragguardevoli parlano di un’inversione di tendenza: i giovani non sono pigri, semplicemente non vogliono sfinirsi per un capo che implora fatica e sudore, accantonando famiglia, amici e appunto la vacanza in riviera. Le priorità insomma si sarebbero invertite. Io credo che pensare a se stessi sia doveroso. Come pure esigere stipendi che siano adeguati allo sforzo. Ma andrebbe detto a tali giovani virgulti che per emergere serve uno sforzo. Il tempo libero è importante, tuttavia si diventa opachi, a tratti insignificanti, se non si inseguono sogni e si realizzano talenti. Veniamo da anni di reddito di cittadinanza elargito indistintamente a schiere di fannulloni di ogni età e provenienza che facevano lavoretti sottobanco e intanto prendevano il benefit.

E abbiamo visto gli studenti accamparsi in piazza per chiedere un appartamentino vista Duomo anziché un lavoro onesto. Anche quelli infervorati che contestano i governi e gridano al cambiamento climatico, fermamente persuasi che il mondo stia friggendo insieme alle foreste e ai pesci del mare, si incazzano fino alla soglia delle vacanze e poi si disperdono nelle spiagge con le proteste stipate in valigia. Il mondo che si ferma all’ora dell’aperitivo o sull’autostrada per le vacanze è uno spettacolo che non mi appassiona. Ma chi lo dice viene accusato di essere vecchio e retrivo, se non addirittura fascista. D’altronde che volete, al parlamento europeo siede le Salis. E se occupare casa senza averne titolo è diventato il modello dominante, mi pare il minimo che si reputi legittimo occupare un posto di lavoro senza fare un cazzo.

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