Vittorio Feltri: la mia Dolce Vita nella Città Eterna santa e dannata
Alla mia età sono diventato pigro e non amo più viaggiare. Da giovane cronista nei miei anni al Corriere ho girato il mondo, ma oggi la sola idea di preparare il bagaglio, prendere un treno o fare ore di auto mi terrorizza, come anche spostarmi in un altro posto dove continuerei a fare le stesse cose che svolgo quotidianamente e tranquillamente a Milano, ossia scrivere i miei articoli, intervenire in qualche dibattito in Tv, sempre comodamente seduto nel mio salotto di casa, aspettando con pazienza l’imbrunire per un aperitivo e cena con chi mi garba. Non ho mai fatto vacanze in vita mia, perché non capisco l’illusione di andarsi a riposare od annoiare nei luoghi di villeggiatura affollati e caotici, dove tutto costa il doppio e dove solo prenotare un ristorante diventa un’impresa titanica. Ma c’è una città dove torno sempre volentieri, che mi è rimasta nel cuore, l’unica che riesce a strapparmi dall’inedia e che ogni volta che c’è l’occasione mi convince a lasciare la mia Lombardia, la metropoli che mi ha accolto da ragazzo durante il servizio militare, un periodo del quale conservo ricordi dolcissimi, dove ho conosciuto e frequentato politici, scrittori ed intellettuali, ed è Roma, la città Eterna, quella che tutti accoglie con la sua semplicità e la sua grandezza, dal colto al popolare, che mischia miseria e nobiltà senza distinzioni di sorta, e che ha mantenuto nei secoli la sua storica identità.
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Da mesi leggo sui quotidiani nazionali critiche feroci su come è gestita la Capitale, dalla sporcizia dei marciapiedi all’invasione dei turisti giornalieri, dalle buche delle strade alla manutenzione dei monumenti, dai lavori infiniti della metropolitana fino ai cassonetti dell’immondizia straripanti di sacchetti di pattume ormai preda prelibata per gabbiani e cinghiali, mentre nessuno si sofferma sulla magnificenza architettonica di Roma, una città «Santa e Dannata» come l’ha titolata Roberto D’Agostino nel suo docufilm, dove è descritta egregiamente con i suoi alti e bassi, tra l’eleganza dei palazzi principeschi e quelli imponenti del potere politico, dalla cupola di San Pietro con il suo colonnato che ti abbraccia al silenzio dei conventi, alle trattorie rumorose con i tavoli in strada, la musica sacra, le feste sulle terrazze, gli artisti di strada a piazza Navona, tra il disincanto e le battute fulminanti dei romani. Girare per Roma equivale a passeggiare nella Storia, tra Bernini, Borromini e Michelangelo, giusto per citarne tre, trovi chiese meravigliose ovunque e in ogni angolo nascosto, reperti archeologici con scorci di prospettiva unici al mondo, come alla passeggiata archeologica tra piazza Venezia e il Colosseo, ed alla fine della giornata chiunque resta stordito da tanta magnificenza, da tanta arte e da tanta storia. A Roma non esiste il rigore di Milano, e nemmeno lo snobismo meneghino, il tempo scorre lento, tutto è fluido, la puntualità non è nel dna dei romani, non si arriva mai in anticipo ad un appuntamento (ci vediamo «verso» le sei, che può voler dire le sei e mezza o le sette meno un quarto) e le scuse per il ritardo sono sempre inventate (il traffico, i taxi, i lavori in strada) ma si arriva sempre con il sorriso e la battuta pronta, soprattutto se all’ora di pranzo. A Roma infatti, si mangia da dio, dal ristorante rinomato alla trattoria nei vicoli, i menù ti ingolosiscono e ti mettono allegria, la pasta alla gricia, all’amatriciana, i carciofi alla romana, la vignarola, i fiori di zucca, l’abbacchio a scottadito, sono piatti che rimpiango anche io che ormai mangio come un canarino, ma è l’atmosfera che ti avvolge e coinvolge, come quando il cameriere ti porge la pietanza dicendo: «Magna dottò che sto piatto cancella i pensieri e te rimette ar mondo!».
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Anche per questi motivi ho accolto con entusiasmo l’invito del collega Tommaso Cerno a scrivere ogni sabato questa rubrica sul Tempo, il quotidiano romano da lui diretto, e non solo per la nostalgia della Roma che ho conosciuto da ragazzo, quella della Dolce Vita di Via Veneto, dove mi capitava di incrociare Vittorio De Sica e Federico Fellini, Dino Buzzati al Caffè Greco di via Condotti, od Oriana Fallaci da Babingtons a piazza di Spagna, quando il divismo di Roma era elegante, non c’era il traffico di oggi né l’invasione dei turisti, e neppure il caos dei mille cantieri aperti dal centro alla periferia. Eppure i romani di oggi mi piacciono ancora, mi divertono, sono diversi da noi lombardi, non hanno formalità, hanno conservato il loro disincanto nei confronti delle celebrità alle quali sono abituati, danno del tu a tutti, politici, artisti, santi e imprenditori, compreso me quando mi incontrano (a Vittò finalmente te se rivede da vivo!) chiamavano per nome anche Gianni Agnelli e Silvio Berlusconi, come oggi fanno regolarmente con il Santo Padre Bergoglio (a Francè preghiamo per te!). Già, a Roma c’è il Vaticano, ed il solo fatto di accogliere sul suolo romano il Papa e la madre di tutte le chiese viene percepito come una protezione divina, una assoluzione automatica e dovuta che in qualche modo cancella tutti i peccati dei romani, una religiosità casereccia che li fa tornare santi e vergini con un semplice segno della croce e due Pater Nostrum e Ave Mariae, recitati senza naturalmente andare mai a confessarsi.
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I sampietrini di Roma che ricoprono le piazze più belle della capitale, da piazza del Popolo a piazza San Pietro, la notte fanno brillare sfavillante il loro basalto alla luce calda dei lampioni, e sono diventati oggetto del desiderio di molti turisti che quando ne trovano uno divelto se lo intascano come una reliquia, utilizzandolo come fermalibri nelle loro librerie sparse nei continenti, a testimonianza del loro viaggio nella città Caput Mundi, celebrata nei più grandi film della cinematografia mondiale, da «Vacanze Romane» alla «Dolce Vita». Anche prendere un taxi a Roma ormai è un’impresa, ma quando ci si riesce si assiste ad uno spaccato esilarante della realtà e della vita romana, con il tassista sempre loquace che ti racconta che prima di te ha caricato Sabrina Ferilli che è «un mito perché romanista ner core» e che per arrivare a MonteMario «oggi dottò bisogna fà prima testamento perché è tutto bloccato!». Alla fine del mio servizio nell’esercito a Roma, quando sono salito sulla mia Fiat500 per fare ritorno a Bergamo, ho avuto la strozza, un nodo in gola, e mentre percorrevo in uscita le strade di questa città monumentale, dove avevo trascorso dodici mesi di vita bellissima,soprattutto la sera quando ero libero dagli impegni militari e giravo per i locali fino a notte, ho pianto di dolore, per me è stato come lasciare una donna meravigliosa che si è amato alla follia, con la quale avevo vissuto momenti indimenticabili e una stagione irripetibile, la stessa nostalgia che provo ogni volta che ritorno nella Capitale, che sì è cambiata, ma è rimasta se stessa nel bene e nel male, mi accoglie allo stesso modo tra il sacro e il profano, con la sua millenaria storia che si respira ed alita in ogni angolo della città, un amore il mio, all’ombra del Cupolone, che mi resterà dentro per sempre.