separazione delle carriere

Giustizia, Lupacchini sfida Gratteri: “Ignora la terzietà del giudice”

Edoardo Sirignano

«Questo è un topos tipico degli ignoranti, di coloro che sostanzialmente ignorano quali sono le leggi naturali del processo, prima fra tutte la terzietà del giudice che non si può realizzare fino a che l’accusatore, in un modo o nell’altro, potrà essere arbitro delle fortune e delle sventure del giudice stesso». Così Otello Lupacchini, ex procuratore generale di Catanzaro, passato alle cronache per i processi alla banda della Magliana, risponde a Nicola Gratteri, procuratore di Napoli, che in occasione del festival letterario «Trame», sottolinea come la separazione delle carriere voluta dal ministro Nordio serva a poco o nulla.

Ogni anno su 100 magistrati solo lo 0,2% cambia funzione. Per il suo collega, dunque, non avrebbe senso cambiare la Costituzione. È d’accordo?
«Sono parole forti, suggestive, ma che denotano l’incapacità di chi le ha pronunciate di rendersi conto che quella dell’accusatore è una funzione di parte. Non è, infatti, il problema dell’uno o due per mille che da una carriera passa all’altra, quanto piuttosto il fatto che siano inseriti alla mercé di un organo che li comprende entrambi e che mette il giudice, quello che svolge il proprio lavoro oscuro e faticoso fuori dalla luce dei riflettori, a dover temere che qualcuno, che magari ha fatto una richiesta che gli è stata rigettata, possa un domani condizionarlo nella propria vita professionale».

 



Perché?
«In un organo come il Csm attuale, un Pm, nei fatti, giudica, a livello disciplinare o di avanzamento nella carriera, colui che si trova o si è trovato come giudice. Ragione per cui quest’ultimo ha tutto l’interesse a tenerselo buono, considerando il clima correntizio di nomine, che non è affatto crollato con le denunce di Palamara. Non separando le carriere continuerebbe a prevalere una cultura sbirresca, che è tutt’altra cosa rispetto a quella della giurisdizione».

Per Gratteri bisognerebbe cancellare tutte le riforme degli ultimi anni, a eccezione di quelle volute da Orlando e dai 5 Stelle...
«Entrambe hanno una matrice: la commissione Gratteri-Davigo. È normale che chi ha concorso alla formazione di quelle norme, di cui andrebbe denunciata la loro pericolosità democratica, dica che solo quelle vadano bene. Detto ciò, la riforma Cartabia ha una serie di difficoltà applicative, in quanto vi sono contraddizioni, affermazioni pletoriche e talvolta didascaliche».

Ciò cosa comporta?
«È chiaro che se esistono abitudini vischiose, che consentono il formarsi di aristocrazie togate, per cui la gente che appartiene al ceto degli accusatori smonta intere Regioni come un Lego o stana i ratti con la cartucciera piena e la scimitarra, anziché con il fioretto, qualsiasi tipo di discussione diventa inutile. Ogni riforma che mette in dubbio e in pericolo il tentativo di qualcuno di affermarsi non per quel che fa, ma per quel che vale sotto il profilo dell’opinione pubblica che riesce a movimentare, non porta lontano. Detto ciò, è innegabile che sono stati fatti dei passi in avanti rispetto a qualche anno fa».

 

 

Altra polemica quella sulle intercettazioni che, a parere di alcuni togati, non costano troppo come una certa politica vuol far credere.
«Sono le idiozie che diffonde chi si limita al piccolo segmento del costo delle intercettazioni disciplinato. Andiamo a vedere, però, cosa c’è dietro al noleggio o all’affitto delle strumentazioni, quali sono le spese per la conservazione dei dati, per fare in modo che le informazioni vengano ben custodite. Allora il costo diventa altissimo. Ci sono, poi, altri investimenti da non sottovalutare».

Quali?
«Tutte quelle risorse utilizzate per fare in modo che non venga dato a dei gaglioffi il potere di conoscere tutto della nostra esistenza e di utilizzarlo a puro scopo personale. Cerchiamo di non giustificare l’ingiustificabile mediante operazioni retoriche di basso profilo. Per delle frustrazioni rischiamo di trovarci di fronte a una massa di sudditi, formata da chi non si sentirà più cittadino».