il caso Satnam Singh
Vittorio Feltri: Satnam Singh e la solita recita degli indignati
Il ragazzo indiano stritolato da una macchina avvolgiplastica nelle campagne di Borgo Santa Maria, provincia di Latina, e abbandonato davanti alla casa della coppia che lo ospitava come un ferro vecchio da buttare era uno schiavo. E i 4 euro l’ora che guadagnava per spaccarsi la schiena nei campi e tirare fine giornata, la prova che lo schiavismo sopravvive e non può avere altro nome. Si crepa adesso come si crepava nell’Italia degli anni 50, e prima ancora nell’Italia confusa e disunita del 700 quando i signori dei terreni erano feudatari imbalsamati nelle loro livree che sfruttavano i braccianti per i lori vizi e capricci. Si chiamava Satnam Singh la vittima. E prendeva ogni sessanta minuti di fatica l’equivalente di due tazzine di caffé in piazza Gae Aulenti a Milano. Solo che dentro quelle due monetine, che noi borghesucci incollati ai social talvolta dimentichiamo di avere in tasca, c’erano la sveglia all’alba, otto chilometri di bicicletta per raggiungere l’azienda agricola dei signori che lo avevano assoldato e un lavoro sfinente nei campi.
Il ragazzo sognava un futuro migliore accanto alla moglie Sony, forse dei figli. E la sera coltivava pomodori in un orticello dietro casa per non pesare sulla famiglia che gentilmente lo aveva ospitato. Ma il suo futuro dipendeva dal permesso di soggiorno, e lui le aveva tutte le sfighe: lavorava in nero ed era un sikh con meno diritti degli altri perché per la legge non si è perseguitati. «Mio marito si poteva salvare», si ripete nella testa Sony, mentre si accascia sulla sedia e precipita nel buio stretto della sua esistenza di fantasma con i sogni sgretolati in una tasca. Erano venuti dalla regione del Punjab in India, i due ragazzi, per quella voglia matta e universale di prendersi in mano la vita. Sognare e sperare in un futuro migliore. Qualunque fosse il prezzo da pagare e da versare a uno dei tanti caporali. Sfinirsi sotto la pioggia battente. O bruciarsi sotto il sole cocente dell’Italia centrale, con le zanzare assatanate ringalluzzite dal clima umido e i calli rugosi che impietriscono le mani.
Satnam, che qualcuno soprannominava affettuosamente Navi perché neppure ai derelitti si nega un briciolo di umanità, è crepato dopo una tremenda agonia. Il figlio dell’imprenditore per cui lavorava non ha pensato di portarlo in ospedale. Ma l’ha lasciato lì sulla strada, con l’orrido sberleffo del braccio amputato ricomposto alla rinfusa in una cassetta di frutta marcescente mentre la terra sotto grondava sangue e avrebbe voluto piangere. «Una leggerezza» avrebbe detto la famiglia al tg «gli avevamo detto di non avvicinarsi al mezzo...».
Dunque che fare? Possiamo recitare tutti la stessa parte. Indignarci. Sorprenderci. Fingere che un regista occulto e sadico abbia alzato il sipario su uno scenario di cui ignoravamo l’esistenza. Ma la verità – banalissima nella sua atroce compostezza – è che sappiamo tutto quello che accade in certe campagne. Lo schiavismo esiste, vive e imperversa accanto a noi. Non è scomparso sotto il rapido avanzare dell’intelligenza artificiale. Non si è annichilito sotto le campagne della sinistra inclusiva. Si è banalmente nascosto sotto la coltre di certe periferie, nei paesaggi assolati delle campagne, nei paesini che sembrano antichi ma di antico hanno conservato solo certe tradizioni crudeli.
Le vediamo d’estate lungo la strada che porta al mare: schiene scheletriche ricurve nei campi che grondano sudore e disperazione e non hanno niente cui aggrapparsi se non una radice che fatica a uscire dalla terra. Sarebbe bene allora mettere da parte l’ipocrisia e prenderci ognuno le nostre responsabilità. I giornali che hanno smesso di fare inchieste perché è più comodo pontificare col sedere incollato alla poltrona; i governi di destra, e prima quelli di sinistra, che si prendono a pugni in parlamento e convocano vertici che sanno di niente; i sindacati col ditino alzato dietro al «faro» Landini che chiamano a raccolta le coscienze inoperose e urlano slogan vetusti ma danno sempre la colpa agli altri; infine la sinistra armocromatica che è bravissima a recitar l’antifona del cavaliere servente vicino agli ultimi e ai derelitti e poi si accomoda nei salotti e disquisisce di ztl. I professori salgono in cattedra e insegnano la storia ma non dicono che l’Italia di Verga e della roba non è poi tanto lontana. E non c’è un prete che sia andato in quei luoghi dimenticati a portare un rosario o due ave maria di conforto. Non dubitate, siamo bravissimi a recitare la parte. Ci saranno inchieste, si indagheranno le responsabilità. I salotti televisivi si riempiranno di Satnam e rimanderanno come un’allucinazione perversa la sua fotina sgranata perché di lui è rimasto solo quello. Ma durerà due settimane e poi tutto finirà. Si dice sempre così: finché non c’è il morto, non si muove foglia in Italia. Solo che i morti cominciano a essere tanti. E le veglie di preghiera non bastano più.