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Musica, il ritorno dei Flaminio Maphia: "Oggi il rap non esiste più, le ragazze acidelle sì"

Katia Perrini
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Sono passati trent’anni da quando G-Max e Rude (poi diventati i Flaminio Maphia) si ritrovavano in piazzale Flaminio assieme a un folto gruppo di ragazzini che arrivavano in centro dalla periferia di Roma per rappare, ballare, graffittare e «rimorchiare». Trent’anni di vita «dal vivo», che ora finiscono in un nuovo disco dal titolo «Live», e in un concerto celebrativo (il 3 maggio al Wishlist Club in via dei Volsci nel quartiere San Lorenzo). Dalla fine degli anni Ottanta ad oggi G-Max ha vissuto la sua vita sotto i riflettori passando dalla musica alla Tv e al cinema, come attore e autore, per poi ritornare, al primo amore (che non si scorda mai), la musica. Cambiano i tempi e cambia pure il nome: da Flaminio Maphia a Flaminio e basta.

G-Max, cosa è successo nel frattempo?
«Per capirlo bisogna tornare alle origini. Noi siamo stati i primi a portare l’hip hop in Italia dall’America. I primi a fare rime in italiano. Il rap nostrano è nato proprio a piazzale Flaminio. Abbiamo aggiunto Maphia, con la ph, in maniera ironica. Perché, ai tempi, il nostro Paese, all’estero, finiva negli stereotipi "pizza, mafia e mandolino". Così nacque il nome Flaminio Maphia. Oggi, il mondo è molto cambiato. Non siamo più bollati come "mafia e mandolino", così ripartiamo da Flaminio, semplicemente».

 



In quella piazza multiculturale e multirazziale, è partito tutto. Com’era il vostro mondo allora?
«A piazzale Flaminio, dove c’era la fermata di metro e trenini, arrivavano facilmente i ragazzi da tutti i sobborghi: dalla Prenestina alla Casilina, da Prima Porta alla Città dei ragazzi. Rude veniva da Bravetta, io da Donna Olimpia. Per lo più erano stranieri: nigeriani, eritrei, somali. Ma poi arrivavano anche i figli degli ambasciatori dallo Chateaubriand (scuola privata francese, ndr) e capitava che ci invitassero alle loro feste. Poi quando gli distruggevamo casa non ci invitavano più... (ride). Da lì è nato il pezzo "Spaccamo tutto". Eravamo una sorta di baby gang di allora».

Come è nata la vostra musica?
«Raccontavamo i nostri pomeriggi per strada, le feste, le nostre storie. Scrivevamo rime il pomeriggio, poi la sera in discoteca salivamo sul palco e le cantavamo per fare colpo sulle ragazze. Sempre più spesso ci chiedevano di cantare durante quelle serate».

La vera svolta quando è arrivata?
«Andai a trovare un amico nigeriano a Torino e dimenticai una cassetta dove avevamo registrato i nostri free style, rime fatte al volo. Un giorno ricevo una telefonata, era un discografico che aveva ascoltato per caso la nostra musica e mi chiedeva: "Ve la sentite di rifarla in studio?". Non me lo feci ripetere due volte, eravamo già a Torino».

 

 

Il colpo di fortuna arrivò più tardi, però...
«Nel 2001 stavamo mollando perché non riuscivamo comunque a emergere. Ma poi uscì "Resurrezione" in collaborazione con Riccardo Sinigallia (che lavora con Max Gazzé, Niccolò Fabi e Tiromancino), e firmammo con la Virgin. Ma niente, non decollavamo. Nel 2003, lavoravamo in radio, a Rtl. Chiesi aiuto a Claudio Cecchetto. Per contratto dovevamo pubblicare un altro singolo, dopo "Bada". Dissi a Claudio: "Ascolta il disco, e dimmi quale pezzo possiamo scegliere". Lui mi massacrò tutto l’album e mi disse che si salvava solo "Ragazze acidelle". Fu la nostra vera fortuna».

Poi, ci fu la partecipazione a Sanremo con Califano nel 2005. Come ricorda quell’esperienza?
«Califano aveva il nostro stesso approccio alla musica, passava dai pezzi ironici a quelli molto più profondi. Probabilmente vide in noi una evoluzione della sua musica. Cantammo insieme "Non escludo il ritorno". Mi rimane un bellissimo ricordo di Franco, che continuammo a frequentare per altri 4-5 anni partecipando anche a suoi concerti. Era un personaggio borderline ma una delle persone più belle e profonde che abbia mai conosciuto. Aveva una tenerezza incredibile e una solitudine grande dentro».

Cosa è cambiato nella musica negli ultimi trent’anni?
«Il rap non esiste più (ma le acidelle ci sono ancora). A volte penso sia diventato anacronistico a cinquant’anni continuare a proporre i pezzi del nostro repertorio. Ma continuano a chiamarci per i concerti e la gente si diverte».

Smetterà di rappare allora?
«Nulla può sostituire l’adrenalina del palco e il rapporto con il pubblico. Non scrivo più musica da dieci anni ma continuerò a stare sul palco. Nel frattempo penso ad altri progetti. Sto scrivendo un libro che racconta la mia vita dai 5 anni fino al successo con i Flaminio Maphia e spero diventi uno spettacolo teatrale, un "One man show". Ma il mio sogno più grande è di trasformare la storia dei Flaminio in un musical. Da ora in poi si apre una nuova pagina dove tutto è possibile. E, come diceva Califano, non escludo il ritorno».

 

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