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Alessandro Borghese: "Ecco la mia rivoluzione"

«Ho portato i cuochi fuori dalle cucine e gli italiani dentro le brigate». Oltre a «4 ristoranti» a breve torna in tv «Alessandro Borghese Celebrity Chef»

Alessio Buzzelli
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«La mia disobbedienza, chiamiamola così, è stata quella di aver portato i cuochi fuori dalle cucine e gli italiani dentro le cucine. Perché questo è e sarà sempre il mio modo di vivere il mondo del cibo e la vita in generale: senza conformismi e a modo mio, dritto per la mia strada». In queste poche parole è racchiusa tutta l'essenza del pensiero dello chef Alessandro Borghese, personaggio poliedrico a dire poco: un approccio alla cucina e alla vita, il suo, personalissimo e mai banale, che lo ha reso uno dei volti più conosciuti, sorprendenti e amati della cucina italiana. Tra la tv (la nuova stagione di Alessandro Borghese 4 Ristoranti appena iniziata e quella di Alessandro Borghese Celebrity Chef in arrivo a breve su Tv 8), i suoi ristoranti (i due AB, uno a Milano e l'altro, più giovane, a Venezia) e gli altri progetti in cantiere, lo chef ha trovato il tempo per regalarci un assaggio del Borghese-pensiero su cibo e ristoranti, arte e lavoro, amore e sacrificio: in una parola, sulla vita.

Chef, iniziamo con una domanda sulla così detta “cucina italiana”: esiste davvero una cucina italiana unica e unitaria, oppure la nostra vera identità gastronomica è custodita nelle cucine regionali?
«Direi decisamente la seconda, non credo che le cucine regionali possano essere impacchettate in un unico contenitore chiamato genericamente “cucina italiana”. Perché l'Italia ha una biodiversità gastronomica unica, un patrimonio stratificatosi attraverso innumerevoli influenze e contaminazioni, anche straniere, e questa unicità dà il suo meglio proprio nelle diverse culture regionali. Al massimo possiamo dire che la cucina italiana italiana nel suo complesso sia composta dalle diverse cucine regionali, questo magari sì; ma dobbiamo ricordarci sempre che essa non può mai rappresentare appieno la straordinaria varietà delle varie cucine locali».

Lo slogan del ristorante AB Venezia è «il lusso della semplicità». Cosa significa?
«Più che uno slogan direi che è un modo di intendere la cucina, quasi una filosofia: per noi vuol dire offrire un ambiente di un certo tipo, con un servizio e una cucina di altissima qualità, dove però il cliente possa sentirsi realmente a casa, senza spendere come in un tre stelle ma con gli stessi standard di uno stellato.
Un luogo accessibile a tutti e dove si può tornare più volte, in cui si lavorano grandi numeri ma sempre ad alto livello. Una cosa, questa, che all’estero è ormai la normalità, mentre in Italia c’è ancora questa idea per cui l'alta cucina debba essere per pochi, esclusiva nel senso che esclude.
Idea che non condivido affatto».

Restando sul cibo, quali sono gli elementi che ispirano la costruzione dei tuoi piatti?
«Per me è fondamentale che i piatti mantengano la propria essenza e la propria identità, al netto di sperimentazioni e lavorazioni particolari. Piatti preparati con grande tecnica e attenzione, certo, ma che devono restare leggibili: da noi se ordini una cacio e pepe, mangerai una cacio e pepe. Una cucina di alto livello con identità e comprensibile al palato, quindi, ma pure “cucinata”, ché oggi tutti “assemblano” e nessuno più cucina».

Eppure la cucina, nell'immaginario odierno, è ormai ascesa a linguaggio espressivo di prim'ordine, tanto che molti non temono di parlare di cucina come arte.
«La cucina è artigianato e il cuoco è un artigiano, punto. Questa storia del cuoco-artista non esiste: se fossi stato un artista averi fatto una sola cacio e pepe nella vita, non l’avrei toccata per anni e una volta morto qualcuno l'avrebbe venduta a cifre esorbitanti. Detto questo, io sono un amante dell’arte e del bello, tanto che i miei locali sono pieni di opere, come fossero delle gallerie, con mostre permanenti e temporanee. Ma anche se mi piace l'arte, resto comunque un artigiano».

Cosa direbbe ad un giovane di oggi che sogna di lavorare in cucina?
«Gli direi che è una missione più che un lavoro, perché la cucina è un atto d’amore, fatto di passione ma anche di tanto sacrificio e fatica. Il nostro è un mestiere che devi amare incondizionatamente, senza ragionare troppo su quanto tempo devi dedicarci o quante ore devi lavorare. E, a proposito di giovani, lasciatemi dire questo: non è vero che i giovani non vogliono lavorare in cucina, anzi. È solo che il mondo è cambiato e oggi ci devono essere le condizioni giuste: io ad esempio ho una brigata di giovanissimi, e siamo tutti molto soddisfatti».

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