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Matteo Messina Denaro, come sta dopo l'operazione. “In rianimazione”, dubbi sul futuro

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Matteo Messina Denaro, operato nel pomeriggio di ieri, dovrebbe restare ricoverato per alcuni giorni nel reparto di Rianimazione. Difficile stabilire se il detenuto al 41bis verrà poi trasferito nella cella ospedaliera dell’ospedale dell’Aquila oppure riportato direttamente nel carcere di massima sicurezza di Preturo che dista sette chilometri dal nosocomio. Il ricovero d’urgenza per un blocco intestinale era avvenuto a poche ore di distanza dall’appello lanciato dai suoi avvocati, la nipote Lorenza Guttadauro e Alessandro Cerella di Vasto, sull’aggravamento del quadro clinico: sono pronti a presentare al Tribunale della Libertà una istanza di sospensione della misura cautelare con ricovero in ospedale dove poter ricevere una migliore assistenza. Nelle stesse ore sono emersi i contenuti del primo interrogatorio reso il 13 febbraio scorso dall’ex boss di mafia al procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia, e all’aggiunto Paolo Guido.

 

 

«Io non faccio parte di niente, io sono me stesso - ha risposto Messina Denaro - ma devo essere un criminale, mi definisco un criminale onesto». «Questo è un ossimoro, lei sa cosa significa naturalmente...», ha obiettato De Lucia. E il capomafia, rivendicando la sua istruzione e la familiarità con i libri: «Sì, l’ossimoro, la gelida fiamma. Facevano sempre questo esempio, a scuola». Messina Denaro nega di avere mai ordinato delitti e racconta la sua versione sull’appoggio alla latitanza ricevuto dal geometra Andrea Bonafede, che gli ‘prestò’ la propria identità, consentendogli di sfuggire alle ricerche per anni, di sicuro negli ultimi due, quelli della scoperta e della lotta al tumore. 

 

 

«In cambio Bonafede ha avuto qualcosa?», chiede il capo della Dda palermitana. «No, no. Andrea no, non c’è questa mentalità...». Spavaldo nel suo narcisismo, Matteo Messina Denaro nega qualsiasi rapporto di tipo istituzionale con pezzi deviati dello Stato e assicura di conoscere la collocazione di «tutte le telecamere di Campobello di Mazara e Castelvetrano». «Molte di queste telecamere quando le piazzavano c’era un segnale - racconta ai pm -. Il maresciallo dei Ros c’era sempre lui appena si vedeva ... con due, tre fermi in un angolo già stavano mettendo una telecamera». I pm prendono atto che il latitante e la sua cerchia conoscono persino i nomi di alcuni degli investigatori che gli davano la caccia e cercano di capire meglio: «Vabbè, ma lei non è che era sempre in giro». Risposta: «No, me lo dicevano». Chi? «Amici miei che non dico». E che conoscevano la sua vera identità? «Certo, è normale». Parole inquietanti.

 

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