A colloquio con Monsiglior Paglia: “Il Ddl Anziani è una rivoluzione copernicana”
Se ne parla da anni. È stata indicata dagli ultimi tre governi tra le priorità da realizzare per poi finire presto dimenticata e scalzata da altre, sempre più urgenti, priorità. Ora finalmente, nel silenzio quasi generale, la Carta per i diritti delle persone anziane e i doveri della comunità ha preso vita. Mancano solo i decreti attuativi di Palazzo Chigi. Chi l’ha fortemente voluta è monsignor Vincenzo Paglia che ne è stato motore attraverso la Commissione per la riforma dell’assistenza agli anziani che ha presieduto. «Una Commissione nata nel contesto doloroso e drammatico della pandemia da Covid 19, durante la quale gli anziani hanno pagato il prezzo più amaro con decine di migliaia di morti, una vera e propria strage».
La pandemia ha anche insegnato molto.
«Ha fatto emergere la contraddizione di una società che per un verso sa allungare la vita delle persone ma per l’altro la riempie di solitudine e di abbandono. Il Covid ha eliminato migliaia di anziani perché noi li avevamo già abbandonati. E abbiamo un gravissimo debito nei loro confronti. Era indispensabile rimuovere alla radice le gravi carenze di un sistema assistenziale squilibrato, ingiusto, oneroso, causa esso stesso di tante vittime».
Per farlo, come ha sempre sostenuto lei, è necessario rovesciare un paradigma, avere cioè una nuova visione della vecchiaia.
«Per questo siamo partiti con la Carta, ci sembrava la base essenziale per una vera rivoluzione copernicana non solo del sistema assistenziale dedicato agli anziani, ma anche per ristabilire il loro ruolo effettivo nella società».
Prenderne coscienza?
«Non è affatto scontato: spesso siamo portati a credere che la vecchiaia sia solo il tramonto della vita, un inevitabile declino accompagnato da perdita, malattie e dolore. La rivoluzione demografica avvenuta dalla metà del secolo scorso ha portato alla luce come un nuovo continente, quello degli anziani. Non che prima non ce ne fossero. Ma è la prima volta nella storia che conosciamo una "vecchiaia di massa": milioni di anziani in più. Un continente ignoto, abitato da persone per le quali non c’è pensiero, né politico, né economico, né sociale, né spirituale. È un’età da inventare. C’è bisogno di una nuova visione sulla vecchiaia. La longevità non è una semplice aggiunta temporale, modifica profondamente il nostro rapporto con l’intera vita».
Quindi è finalmente arrivata la legge delega. Il Parlamento l’ha approvata senza nessun voto contrario. E questo è significativo. Tuttavia, mi permetta di dirle, che nessun testo può definire il portato valoriale della terza età.
«Lei ha ragione da vendere: una legge non può e non deve definire una età della vita, una condizione umana, una stagione che, per fortuna, la stragrande maggioranza degli italiani e degli occidentali avrà modo di vivere. Però la legge può aiutare a rovesciare quel senso triste e scontato di vecchiaia come malattia e declino che ha contagiato tutti noi. Può difendere gli anziani più fragili e soli. Può aiutare ad avviare intere generazioni ad una coscienza nuova della "età grande", come mi piace definirla».
Mi aiuti a capire.
«Mi spiego meglio con alcuni esempi: su 14 milioni di over 65 quelli che risiedono in una Rsa sono meno di 300 mila. E nemmeno tutti costoro sono non autosufficienti, come sostiene l’Istat che stima in circa un quarto coloro che non vivono questa condizione in assistenza residenziale. È vero, milioni di altri vivono presso la propria abitazione con tanti problemi, motori e nelle attività fisiche della vita quotidiana. Con disabilità e soprattutto, spesso, da soli e senza aiuto alcuno. Eppure, sono a casa. Almeno 10 milioni vivono la loro vita con qualche fragilità ma, pur sempre, nella sua pienezza».
Anziani solo all’anagrafe.
«Sono coinvolti nella cura dei nipoti o della terra, assistono i propri cari e curano i loro beni, seguono con passione e interesse i problemi del paese, cercano di contribuire al suo sviluppo con la loro esperienza e voglia di fare. Insomma, sono e restano una incredibile risorsa del Paese. E questo devono restare».
Un valore, certo. Ma dunque la legge quali obiettivi fondamentale deve porsi?
«Possiamo sintetizzarne quattro. Il primo e più importante è aiutare gli anziani presso la loro abitazione, ovviamente circondandoli di assistenza e di solidarietà; il secondo è prevenire le conseguenze della loro fragilità, consapevoli che, la fragilità è forse il comune denominatore degli anziani (come del resto anche dei piccoli); un terzo obiettivo è combattere la solitudine coinvolgendo tutta la società civile, e questo richiede una cambio di cultura che valorizzi l’intergenerazionalità; e, infine, propiziare una vita attiva, socialmente inserita che continui a restare "valore"».
Quattro cardini, in pratica.
«Sì, quattro cardini irrinunciabili che corrispondono ad altrettanti traguardi: la casa come luogo della memoria, dell’identità e della famiglia, quale essa sia. La prevenzione come atteggiamento governativo e della collettività in tutte le politiche per gli anziani. L’inclusione sociale come diritto dovere di tutta la società a non lasciar soli. Una vita attiva per dire che il riposo è importante ma non può essere una condanna, una esclusione, uno stigma».
La legge introduce con grande ambizione una prospettiva nuova che punta a ricollocare gli anziani al centro del nostro sentire civile.
«Esattamente. Con papa Francesco direi anziani da scarto a chance di sviluppo. È un sogno? Sì, è un sogno. Ma poggia su solide e concrete fondamenta. Anche qui alcuni esempi: oltre 2,5 milioni di anziani vivono in Comuni sotto i cinquemila abitanti. Sono i paesini delle nostre origini, le radici vere della nostra cultura e identità: pensi a Subiaco e al monachesimo benedettino o a Ventotene ed al sogno europeo, a Caltagirone patria di don Sturzo, ai mille cammini storici e geografici, dalla Roma imperiale alla via di Francesco d’Assisi. Tutto questo immenso patrimonio storico, artistico, umano e culturale è oggi ancora custodito dai nostri vecchi. Aiutarli è aiutare tutto il Paese a ritrovarsi».
Obiettivi ambiziosi e un rivolgimento profondo delle politiche assistenziali. Chi governerà questa trasformazione? Sa bene che non mancano disegni di legge rimasti sulla carta, senza che sia stato possibile metterli in atto.
«La legge delega si pone questo tema della governance. Il problema è talmente importante che è stata immaginata una nuova intera catena di comando secondo un approccio, mi perdoni la tecnicalità, top down ed uno bottom up. Insomma, dall’alto, attraverso il Cipa (Comitato Interministeriale per le politiche in favore della Popolazione Anziana, ndr) ma anche dal basso verso il vertice, con una strategia di sperimentazioni che coinvolga non solo le istituzioni ma anche i territori, il Terzo settore, il mondo del volontariato, le famiglie e i caregiver».
Il Cipa è un organismo alle dirette dipendenze di Palazzo Chigi.
«Ed è chiamato a coinvolgere tutti i Ministeri interessati -Mef, Lavoro e Welfare, Salute, Disabilità, Mit e via dicendo e che abbia per obiettivo di conoscere e definire le domande della popolazione anziana e di programmarne le risposte, in un quadro unitario, coerente e articolato nel tempo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità parlava di "Health in all Policies", salute in tutte le politiche, noi diciamo anche che tutte le politiche debbono tener presente le necessità degli over 65, per una vera accoglienza delle tematiche dell’invecchiamento. Il Cipa dovrà poi produrre una cornice nazionale unitaria delle regole del gioco: penso ad esempio a criteri di accreditamento omogenei e validi per tutto il paese delle strutture e dei servizi per gli anziani, secondo una logica che favorisca la libera scelta degli utenti, strumenti di valutazione multidimensionale dei bisogni concordati e validati, che siano il "linguaggio" comune del nostro modo di prendere in carico - finalmente - gli anziani. E ancora si dovrà lavorare per integrare anche a livello informatico e informativo le fonti dei dati della salute, del sociale e dell’assistenziale, evitando sovrapposizioni, sprechi, disparità di trattamento».
L’approccio dal basso?
«La riforma non pretende di imporre un modello unico, anche tenendo in considerazione le profonde differenze regionali e di contesto presenti nel nostro Paese. Si dovrà procedere secondo una logica di sperimentazioni che saranno proposte nei territori, secondo modelli misti pubblico - privato, che coinvolgano davvero tutti alla ricerca di buone pratiche che funzionino per qualità, efficacia ed efficienza. Con le sperimentazioni intendiamo produrre cambiamenti sia nei servizi che nella mentalità, chiedendo a tutti uno sforzo di immaginazione e inventiva ma anche di rigore scientifico e valutativo».
Se ho ben capito i due sistemi si incontrano sulle sperimentazioni.
«Sì, lo immagino così: le proposte partono dai territori, vengono vagliate e filtrate da una qualificata segreteria tecnica del Cipa, gestite economicamente e amministrativamente da Inps e valutate e certificate da Agenas. Se sono accettate, e producono risparmi reali, il Mef le porta a sistema in modo definitivo. È un modo nuovo di fare politica, di affrontare la grande complessità chiamando tutti a partecipare, ma assegnando alla politica quel ruolo di guida che deve avere perché la democrazia funzioni».
Un meccanismo non proprio semplice da realizzare. A che punto siamo?
«Tutto questo già accade grazie alle Commissioni che sono state messe in campo. A Palazzo Chigi la vice ministro Bellucci coordina, mi sembra con efficacia, gli sforzi degli uffici giuridici e amministrativi dei ministeri coinvolti, mentre il ministro Schillaci ha rinnovato e rafforzato la Commissione tecnica, che mi onoro di presiedere, incaricata di formulare i contenuti sanitari e sociosanitari della riforma. Un grande sforzo corale per guidare la riforma e non lasciarla preda delle piccole e grandi divisioni che hanno di fatto spaccato per decenni la assistenza non solo agli anziani».
Frutto di tutto questo?
«Sarà la nascita di un vero e proprio continuum assistenziale, ossia di una articolata serie di servizi, da quelli più leggeri ed a più alto contenuto preventivo a quelli più intensivi: tutti i segmenti dovranno prendere in carico l’anziano e non abbandonarlo più. Abbandoniamo invece, spero in via definitiva, un approccio una tantum, fatto di prestazioni episodiche, più legato ai budget che non alle necessità del cittadino».
A me pare che tale prospettiva richieda, come lei diceva, un profondo cambio di cultura. Anche perché c’è una convinzione comune che papa Francesco ripete spesso, ossia che gli anziani sono considerati degli scarti. Ho sentito da lei dire che "il più grande nemico della vecchiaia è l’idea che tutti ne abbiamo, appunto che sia uno scarto, un naufragio". In effetti nel comune sentire si ha paura persino di usare la parola vecchi.
«Lei ha ragione: dobbiamo cambiare radicalmente l’idea che abbiamo della vecchiaia. E, per quel che riguarda il campo sanitario, vorrei dire che l’orizzonte che presiede la riforma è quello di andare verso un modello di assistenza agli anziani che sia integrato, sociale, sanitario e assistenziale. Abbiamo bisogno di una sanità diffusa che sappia essere presente sul territorio e presso le abitazioni, leggera, dinamica, proattiva, pensata per la prevenzione e non solo per le emergenze. I Pronto Soccorso sono affollati non per i limiti degli ospedali ma per l’assenza di servizi sul territorio. Cosa offriamo ai nostri malati di Alzheimer? Ai tanti che soffrono per patologie croniche e invalidanti? Al meglio un ricovero che, per queste cause, non aiuta molto e di sicuro prosciuga risorse importanti. Ecco, la legge rappresenta il tentativo di portare una sanità integrata a chi ne ha bisogno».
Quindi capillarità territoriale e servizi tempestivi.
«Questa grande trasformazione potrà creare molto lavoro, perché avrà bisogno di figure nuove, ad esempio operatori socio sanitari specializzati per lavorare sul territorio e a casa delle persone. Stimiamo in almeno 100 mila i nuovi Osss (con le tre S) di cui avremo bisogno in tempi rapidi. Un investimento certo, per rendere più efficiente la spesa sanitaria, spostando quella improduttiva e inappropriata via dagli ospedali e verso centri diurni, centri multiservizi nei piccoli Comuni, Rsa diffuse, capaci di portare i propri servizi a casa delle persone e non solo viceversa. L’Italia, come secondo Paese più vecchio del mondo, ha in questo una missione speciale: reinventare la vecchiaia e il modo di sostenerla e la legge è certamente un veicolo molto importante, lo strumento di una vera rivoluzione culturale».
Che poi chi definisce la vecchiaia? Quando si diventa anziani? Alcuni 87enni ancora lavorano con vigore e gioia. Ed è poi il "lavoro" un concetto talmente ampio se ricondotto agli "anziani". I nonni che accudiscono i nipoti sono lavoratori?
«Certamente l’età non dice tutto, ma proverei a concentrarmi sull’idea stessa di vecchiaia. È una condizione molto particolare, vorrei dire molto speciale: quella di chi è vicino ad un limite dopo aver molto vissuto e forse, anche per questo, si ritrova libero dai tanti vincoli della vita. Viviamo la giovinezza e l’età adulta come una corsa a raggiungere qualcosa: il titolo di studio, il lavoro, la famiglia, la sistemazione di figli e nipoti. Poi viene la vecchiaia e la corsa, la competizione, sembra perdere senso. Ci ritroviamo liberi, ma per cosa? Comincia una stagione nuova che, al di là dei guai di salute e della fragilità, si presenta come il tempo della libertà e della generosità. Liberi di aiutare perché decentrati da noi stessi, più attenti agli altri, alle loro necessità. Certo, si può sempre vivere concentrati sui propri guai, sui nostri rimpianti ma, per moltissimi, la vecchiaia diviene il tempo per guardare agli altri, pregare, preoccuparsi dei problemi del mondo. Per questo la chiamo l’età grande: può essere un meraviglioso processo di liberazione da noi stessi, di crescita e di partecipazione. L’età grande perché età del cuore».
C’è un problema profondo nella società civile: la mancanza di rispetto. Sembrano smarriti valori quali il sacrificio, l’educazione. Lo vediamo quotidianamente, ragazzi incapaci di valutare le conseguenze delle loro azioni, prepotenti, diseducati alla socialità e al rispetto delle regole e degli altri, anziani compresi.
«Credo di poter guardare agli innegabili problemi di cui lei fa cenno con una nota di ottimismo in più. È vero, cresce un analfabetismo umano, il non sapersi relazionare, la difficoltà a leggere la realtà e a guardare le cose in profondità. Però credo che dobbiamo guardare i giovani e le loro famiglie con maggiore simpatia e speranza. Il mio augurio è che tutti, e non solo le famiglie, ci facciamo carico di problemi che sono conseguenza di una società consumista, fortemente orientata all’individualismo ed alla competizione. Dove essere perdenti è tanto facile, così come è facile pensare che non si può cambiar nulla e non si è veramente padroni della propria vita».
La famiglia che ruolo ha?
«Certo, non dobbiamo sottovalutare l’abbandono pedagogico da parte di non pochi genitori. Anzi, è decisivo che riprendano la loro responsabilità di essere madri e padri. Gli studiosi parlano di "evaporazione del padre" e quindi di figli che sono di fatto orfani di paternità e di quella autorevolezza di cui tutti abbiamo bisogno. E così pure sull’assenza delle mamme. Una società senza madri diviene disumana: le madri sanno testimoniare sempre, anche nei momenti peggiori, la tenerezza, la dedizione, la forza morale. E, mi lasci dire, sanno anche trasmettere il senso più profondo della pratica religiosa: nelle prime preghiere, nei primi gesti di devozione che un bambino impara, è inscritto il valore della fede nella vita di un essere umano.