il ritratto di bisignani
Silvio Berlusconi, gigante gentile che ha superato De Gasperi e Agnelli. Il ritratto di Bisignani
Caro direttore, UN GIGANTE. Morto il Cavaliere, impossibile che ne nasca un altro. Insieme ad Alcide De Gasperi e Gianni Agnelli, Silvio Berlusconi è stato l’italiano più influente del Dopoguerra. Ma, a differenza di De Gasperi e Agnelli, il primo politico, il secondo imprenditore, Silvio ha fatto di più, in quanto ha rivestito entrambi i ruoli.
Talvolta superando perfino il fascino magnetico dell’Avvocato che, per anni, era stato il suo mito. Per tutta la vita il Cav. ha vissuto con due sindromi che solo in rarissimi casi, spesso geniali, combaciano: era euforico ed ossessivo al tempo stesso. Euforico perché si lanciava in sfide continue nella convinzione di poter raggiungere qualsiasi traguardo, senza paura, gettando il cuore oltre l’ostacolo, anche a costo di farsi male. Ossessivo perché preparava ogni mossa con maniacale precisione e calcolo. Affermare che ha trasformato la società italiana con l’avvento della tv commerciale è perfino riduttivo. Ha costruito un modello nuovo di abitazioni, anticipando di decenni l’ambientalismo di maniera, ha reso il calcio italiano uno show business innovativo, seducendo accaniti tifosi del Milan persino dalla lontana Cina, ed è l’unico al mondo ad aver messo in piedi in venti giorni un partito politico, che poi è andato subito al governo. Pur con le sue mille contraddizioni, nessuno dei suoi troppi detrattori e pubblici ministeri che lo hanno perseguito potranno mai togliergli questi incredibili successi, così come la soddisfazione di essere ancora oggi il presidente del Consiglio che ha governato più a lungo l’Italia.
Lo incontrai la prima volta nel 1977. Avevo ventiquattro anni ed ero capo ufficio stampa del ministro del Tesoro Gaetano Stammati, lui quasi quarantenne, già importante immobiliarista milanese, che stava per diventare il più giovane cavaliere del lavoro della Repubblica Italiana. A presentarmelo, in un attico di via Vittoria a Roma, Roberto Gervaso, allora pupillo di Indro Montanelli e scrittore affermato. Me lo volle far incontrare per avere conferma che tutto l’iter della pratica fosse andato a buon fine. Di Berlusconi la prima cosa che colpiva era il sorriso disarmante e l’empatia immediata, di quelle da farti sentire di conoscerlo da sempre. Una sera a casa di Giampaolo Cresci, allora delfino di Amintore Fanfani ed Ettore Bernabei, mitico direttore generale della Rai, sempre con il ministro Stammati e l’allora ministro dell’interno Francesco Cossiga, ci trovammo a cena con il neo Cavaliere sprizzante gioia da tutti i pori per questo riconoscimento che lo elevava tra i grandi imprenditori italiani. Incurante della presenza di Fanfani e di Bernabei, che avevano inventato la Rai, per tutto il tempo Berlusconi si lanciò a raccontare come il suo progetto di tv commerciale avrebbe soppiantato la tv di Stato. Rammento, come se fosse oggi, le poche parole che mi disse Stammati mentre scendevamo in ascensore dal bell’attico della Collina Fleming: «Chisto, o è no’ pazzo o è no’ genio».
Così come mai dimenticherò la telefonata stupita di mia madre quando mi avvertì che erano state recapitate a casa delle bottigliette di Coca Cola. Quando al telefono le chiesi cosa ci fosse da meravigliarsi, mi disse: «Gigio, non delle bottigliette di Coca Cola, un intero camioncino!», di quelli che andavano di moda al tempo, con decine di cassette impilate. Un semplice biglietto di accompagnamento: «Grazie, Silvio». Spiegai a mamma l’arcano. Fedele Confalonieri, già allora braccio destro del neo Cavaliere, in una precedente occasione mi aveva fatto dono di una confezione di champagne francese e, nel ringraziarlo, gli dissi garbatamente che ero astemio. Ecco, in tutta la vita Berlusconi ha sempre voluto incantare i suoi interlocutori con gesti spettacolari. Era irrefrenabile la sua gioia di stupire.
E Berlusconi, allora, siamo nella metà degli anni ’80, non pensava proprio di «scendere in campo» in politica, pur avendo in animo di trasformare l’Italia in una società liberale e moderna. Diventato poi un precursore della televisione commerciale, mi è capitato di partecipare ad alcune riunioni in cui si parlava dell’acquisto del Milan o di Rete4, la sua terza tv. Insieme ad altri interlocutori presenti, dicevamo che sarebbe stata una follia acquistare una squadra di calcio perché, dopo le prime fiammate di entusiasmo, i tifosi gli avrebbero girato le spalle, e inoltre non c’era motivo di avere una terza rete, visto che possedeva già Canale 5 e Italia 1. Non ci diede retta, convinto com’era delle sue idee e del suo progetto visionario. Ebbe ragione: triplicò le entrate.
Il Biscione in quegli anni dominava il mercato della raccolta pubblicitaria del piccolo schermo, facendo così anche la fortuna di molte aziende che vi investivano. Curioso e costantemente concentrato, ad ogni incontro prendeva appunti su tutto, a ciascuno dei suoi ospiti dedicava un’attenzione ad hoc, senza tralasciare alcun particolare sull’eventuale pranzo o cena, sulla scelta dei fiori e sulle abitudini dei suoi commensali. Era un padrone di casa squisito che conquistava anche coloro che avevano preconcetti nei suoi confronti.
Così fu anche nel caso di Raul Gardini, quando lo andò a trovare a Ravenna per farsi vendere la Standa. Raul lo ricevette solo per gentilezza, giurando che mai gliel’avrebbe venduta. Il contadino sapeva essere ruvido e sferzante, ma il Cavaliere alla fine lo «espugnò». Il pirata Gardini poi, durante una loro camminata nelle vie di Ravenna, rimase stupito dal gran numero di gente comune che lo avvicinava con affetto e ammirazione, con una parola, una battuta o un sorriso contraccambiava sempre il saluto. Già allora, infatti, ancora prima di entrare in politica, grazie alle vittorie del Milan e alla popolarità delle sue tv, era un personaggio. Sapeva essere galante, con migliaia e migliaia di rose fatte recapitare a presentatrici e soubrette che dalla Rai sarebbero passate in Mediaset; generoso, soprattutto con chi si trovava in difficoltà.
Nella prima fase di Mani pulite, quando ancora non era stato messo sotto i riflettori, con tutte le sue televisioni che acclamavano il pool, seppe essere molto affettuoso con la famiglia Ferruzzi. Mi disse, mentre eravamo all’aeroporto di Ciampino: «Comunque di’ ad Arturo e Carlo che tutte le case che ho in giro per il mondo sono a loro disposizione». Fino ad allora, sulla politica Berlusconi aveva lo stesso pensiero di Enrico Mattei: un taxi sul quale salire, pagare la corsa e poi scendere. Ne diffidava e voleva starne lontano. Durante le crisi di governo, ricordo che la sua maggiore preoccupazione era chi sarebbe diventato titolare del ministero delle Comunicazioni, dove a tutti i costi non voleva che andasse uno dei democristiani della sinistra Dc, i vari Sergio Mattarella, Carlo Fracanzani, Ciriaco De Mita, Riccardo Misasi ma più di tutti, Guido Bodrato, perché li considerava da sempre dei nemici per il suo progetto di una televisione liberale e commerciale. Con un’unica eccezione: «Italia domanda» su Canale 5, che aveva affidato a Gianni Letta nel suo primo incarico nel regno di Arcore, trasmissione alla quale riservatamente collaboravo. E, pur di evitare un ministro della sinistra democristiana, si trovò a puntare su Oscar Mammì, repubblicano, che poi non a caso fece la famosa Legge sulle telecomunicazioni, a cui si aggiunse, anni dopo, quella di Maurizio Gasparri, rimasto nel tempo uno dei più fedeli alleati di Berlusconi.
In quello che lui stesso definiva il «teatrino della politica» della prima Repubblica, i due capisaldi del mondo di Silvio erano Bettino Craxi e Arnaldo Forlani, a cui deve parte del suo successo di tycoon.
Tra i politici che hanno fatto la storia d’Italia, Silvio Berlusconi aveva una venerazione per Alcide De Gasperi, ritenendolo il vero e unico argine contro i comunisti. Ed è proprio seguendo il suo esempio, per la deriva che aveva assunto Mani pulite ed il legame tra procura di Milano e Partito Comunista, che decise contro tutto e contro tutti, di scendere in campo, con Indro Montanelli direttore del suo Il Giornale, che gli preconizzava, giustamente, che l’avrebbero fatto a pezzi. In extremis, tentò in ogni modo di rimettere in piedi i cocci della politica che l’inchiesta aveva spazzato via, ore di colloquio con quelli che sembravano i leader emergenti del momento, Mariotto Segni in testa. Infine, ruppe gli indugi e fondò Forza Italia. Un miracolo che ha mandato in tilt la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto sponsorizzata da Carlo De Benedetti, il grande rivale di Silvio Berlusconi, il quale, nonostante il plotone mediatico-legale che gli ha schierato contro per tanti anni, non ha potuto altro che soccombere, rifugiandosi nelle sue ville in Svizzera ed in Spagna.
Silvio è l’italiano che non hai mai abbandonato l’Italia, che ha pagato con le sue aziende più tasse di tutti, che ha dato lavoro a milioni di persone nei diversi campi di attività, che è stato perseguitato con 488 perquisizioni, una trentina di processi e il sequestro di oltre due milioni di pagine documentali, finite con un’unica e sola barbarica condanna a cui aveva fatto ricorso. Quest’anno ha peraltro assistito al beffardo contrappasso della condanna di Nicolas Sarkozy che, anni prima, lo aveva deriso pubblicamente insieme alla Merkel.
Durante gli anni dei suoi governi, Berlusconi, piaccia o no, ha riportato il Paese al centro della scena mondiale, allacciando rapporti personali inimmaginabili per un leader europeo. Dai presidenti degli Stati Uniti a Putin fino a Erdogan e Gheddafi. Di Erdogan è stato testimone di nozze del figlio, Putin è andato a trovarlo nella sua dacia quando era ristretto nei movimenti per motivi giudiziari. Con Gheddafi, che durante quegli anni veniva più a Roma che a Bengasi, aveva raggiunto una confidenza inimmaginabile. Tanto che Berlusconi non perdeva occasione per elogiare la Guardia Amazzone tutta al femminile che il Colonnello si portava nelle trasferte, il reparto militare d’élite per la sua sicurezza, e a volte finivano perfino a parlare di punturine afrodisiache.
Aveva fascino anche quando coinvolgeva gli ospiti nel tour del parco di villa Certosa in Sardegna, riconoscendo ad una ad una le piante, fino a stupirli, di notte, con il vulcano che illuminava le serate di festa. L’intimità con i leader del mondo ha portato l’Italia a Pratica di mare a far stringere le mani a Putin con Bush, in pieno accordo con gli alleati dell’Occidente, mettendo così fine alla guerra fredda. Berlusconi fu il primo a capire che abbandonare Gheddafi al suo destino avrebbe destabilizzato l’intera area del Mediterraneo.
Ma il ruolo dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per assecondare l’Eliseo, che da sempre aveva osteggiato la discesa in campo della tv commerciale in Francia, fu nefasto. Quello del Quirinale è stato il grande vulnus della leadership berlusconiana. Al Colle non solo non ci è mai arrivato, ma ha sempre dovuto soccombere davanti ai vari Presidenti, con Oscar Luigi Scalfaro in testa, che l’hanno combattuto da dentro le istituzioni. Certamente, lui ci ha messo anche del suo quando, morta la mamma Rosa che adorava, si è lasciato prendere dalla gioia di vivere senza tener conto che la magistratura militante aveva trasformato la sua villa di Arcore e le sue residenze romane in un «cimiciaio» pieno di telecamere e microfoni per esporre la sua vita privata al pubblico ludibrio. Sicuramente un eccesso, ma come diceva Andreotti parlando di quelle vicende, mai in Francia nessuno si sarebbe permesso di guardare dal buco della serratura la vita privata di Giscard d’Estaing o di François Mitterand, altrimenti se ne sarebbero viste delle belle.
Per assurdo, la gazzarra attorno alla vita privata di Berlusconi ne ha fatto, in tante parti del mondo, un mito. Ricordo quando una notte arrivai con la mia famiglia in un ostello a tremila metri di altezza a Machu Picchu, in Perù, e ci venne ad aprire un campesino assonnato. Quando capì che eravamo italiani, iniziò un balletto forsennato, cantando ammirato «Bunga Bunga» e «Silvio, Silvio».
Se una critica si può fare agli anni di governo di Berlusconi, è quella che gli piaceva più essere presidente del Consiglio che fare il presidente del Consiglio, attività che aveva delegato completamente al suo infaticabile e prezioso Gianni Letta che, da solo, doveva tenere a bada Quirinale, Vaticano, alleati e opposizione. Con un premier distratto, forse, da troppe debolezze e dal desiderio di occuparsi principalmente di politica estera, dove a volte, per esuberanza, si è imbattuto in gaffe, ma anche in simpatici siparietti inaspettati come, ad esempio, quello in cui agitando la mano e ad alta voce chiamava Obama, davanti alla Regina Elisabetta.
La sua più grave mancanza, certamente quella di non aver mai voluto crescere un delfino che portasse avanti con autorevolezza Forza Italia, la sua creatura nella quale ha investito centinaia e centinaia di milioni di euro. Ha bruciato tutti i possibili coordinatori scatenando all’interno del partito una guerra tra correnti sotterranee che si affrontavano di nascosto a colpi bassi per poi accucciarsi di fronte a Silvio, che li blandiva, raccontando a ciascuno di loro una versione diversa o promettendo incarichi che mai sarebbero arrivati. Oltre alle barzellette, il racconto delle bugie, una sua qualità straordinaria, anche perché non sembravano mai bugie, ma convinzioni granitiche. Capitò anche a me una volta, quando andai a ricordargli un episodio, per lui importantissimo in quel momento. Prendendomi il braccio con quelle sue mani sempre curate, mi redarguì: «Questo non me l’hai mai detto, Luigino». Certo invece di avergliene parlato, gli risposi con un aneddoto che tanti anni prima mi aveva rivelato Tommaso Morlino, allora presidente del Senato, per un caso analogo che gli era successo con Aldo Moro, suo capo corrente e indiscusso punto di riferimento: quando vai da una persona molto più importante di te, di quell’incontro ricordi ogni dettaglio, quando aspetti, quando sei lì, memorizzando qualsiasi interruzione. Berlusconi, imbarazzato con il suo sorriso disarmante, si limitò a replicare: «Effettivamente devo tenerne conto». Lo conoscevo da anni e non potevo prendermela.
L’ultimo Berlusconi è stato un nonno malinconico. Devastato da mille acciacchi fisici, incupito dall’ossessione per la persecuzione giudiziaria e dai rapporti con le sue donne e con il cerchio magico che, ad ogni nuovo «giro», lo ha allontanato da quel mondo che, per anni, gli è stato attorno e che lui coltivava sempre con una parola, un gesto di solidarietà, una telefonata. È finito accerchiato da poche persone che hanno approfittato della sua indole generosa isolandolo, seppure fossero gli ultimi arrivati alla sua corte. L’ultima giravolta, dopo il finto matrimonio con Marta Fascina organizzato da Licia Ronzulli, il grande rovesciamento di carte. Con la Ronzulli che viene esautorata e la Fascina che prende il comando del partito, forte di un’alleanza con la primogenita Marina che di fatto ne è la vera erede. Nessuno come lui è stato così divisivo in Italia, tanto amato quanto osteggiato. La sua morte, uno shock per un intero Paese che è cresciuto attraverso i suoi trionfi e le sue sconfitte. Una cosa è certa: non ci sarà mai più un Cavaliere come lui, forse con qualche macchia, ma di certo senza paura. E con ogni probabilità, il suo impero, così come quello degli Agnelli, finirà all’estero, a pezzi, cosa che non avrebbe mai voluto. Silvio, ci mancherai. Tanto.