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L'ipocrisia di chi oggi celebra Giovanni Falcone ma trent'anni fa lavorava per isolarlo

Riccardo Mazzoni
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Troppe commemorazioni di Giovanni Falcone restano velate dall'ipocrisia, perché rimuovono le circostanze ambientali in cui maturò il terribile attentato mafioso di Capaci. Adesso tutti celebrano il giudice eroe, ma quando nel 1991 il ministro Martelli lo chiamò a lavorare a Roma la magistratura gli aveva fatto terra bruciata intorno: il Csm non lo volle alla guida dell'Ufficio Istruzione e poi della Procura di Palermo, la Cassazione aveva messo in dubbio l'assunto fondamentale dei processi da lui istruiti, e cioè che la mafia avesse una struttura unitaria e gerarchica di comando, il suo capo gli aveva sottratto le inchieste più importanti, mentre il sindaco di Palermo Orlando era arrivato a denunciarlo al Csm con l'accusa infamante di tenere nascosti nei cassetti della Procura «i nomi dei mandanti politici dei più gravi delitti di mafia». Martelli dunque gli offrì l'incarico al ministero per un motivo paradossale: il giudice che aveva inferto il colpo più duro alla mafia non era più in condizione di fare il suo lavoro. Quando Cosa Nostra gli organizzò un attentato nel villino dell'Addaura, i suoi avversari interni - fiancheggiati dalla stampa compiacente - insinuarono perfino che se l'era preparato da solo. Attacchi che ripresero vigore quando Falcone divenne Direttore degli Affari Penali del ministero: il Pci lo accusò di essere «un magistrato che ha perso la sua indipendenza vendendosi ai socialisti». Per i vertici della magistratura di allora, il disegno di Martelli e Falcone era quello di ottenere la subordinazione dei pm al ministro della Giustizia. In realtà Falcone, fino dalla sua tesi di laurea sull'istruzione probatoria nel diritto amministrativo, in cui scrisse che il giudice «deve essere terzo e imparziale», non si è mai discostato dalla rotta del garantismo e della cultura della prova. Già nella tesi, insomma, era emersa la visione strategica senza la quale difficilmente si sarebbe potuto celebrare il maxi processo che avrebbe dato un colpo durissimo e senza precedenti alla mafia.

 

 

Falcone si pose per primo il problema della compatibilità delle maxi-inchieste con il processo di tipo accusatorio. Aveva insomma intuito che un uso eccessivo del reato associativo, come quello previsto dal 416 bis, «può generare fenomeni di abnorme gigantismo processuale e rischia di appiattire la valutazione delle responsabilità individuali». E in un libro del 1982 - «Tecniche di indagine in materia di mafia»- aveva tracciato il solco di una cultura processuale di tipo garantistico, «che escludeva scorciatoie probatorie a carattere sociologico». La lezione di Falcone resta di estrema attualità, alla vigilia del referendum sulla separazione delle carriere. Scrisse infatti: «... la regolamentazione della carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l'habitus mentale, le capacità professionali richieste: investigatore il pm, arbitro della controversia il giudice». Tema da affrontare senza paure, aggiunse, «accantonando lo spauracchio della dipendenza del pm dall'esecutivo e della discrezionalità dell'azione penale, puntualmente sbandierati quando si parla di differenziazione delle carriere». Falcone aveva dunque già indicatola riforma cardine per un sistema giudiziario più credibile.

 

 

Anche la dipendenza del pubblico ministero dall'esecutivo, nella sua visione, era «un falso problema», e una politica giudiziaria nazionale, come avviene negli Stati Uniti, era anzi qualcosa da auspicare. Si chiedeva infatti Falcone: «Com'è possibile che in un regime liberale tutto sia riservato alle decisioni, assolutamente irresponsabili, dei vari uffici di Procura e spesso dei singoli sostituti?». Parole in odore di eresia, come quelle pronunciate in una lezione del maggio 1990 quando affermò che «non possono esistere argomenti tabù e difese quasi sacrali di istituti come l'obbligatorietà dell'azione penale», ma quasi profetiche, vista la deriva giustizialista che la magistratura politicizzata avrebbe inflitto al Paese da Tangentopoli ad oggi. Falcone non è stato dunque un nemico dell'indipendenza della magistratura, ma un gigante lasciato solo nella sua battaglia per una giustizia più giusta e credibile.

 

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