Stipendi ministri, la politica ha un costo. Marcia indietro scelta tattica
La maggioranza approverà la Finanziaria senza la norma sull’equiparazione tra lo stipendio dei ministri e quello di deputati e senatori, perché così si toglie di mezzo una polemica in questa delicata fase della vita parlamentare. Giorgia Meloni ha chiaramente detto ieri alla Camera che giudica opportuna questa scelta, anticipata la sera prima dal ministro Crosetto. Scelta tattica comprensibile: la politica è anche sapere fare le cose al momento giusto. Però occorre parlare con il linguaggio della verità sull’argomento: questa decisione non deve diventare rinuncia definitiva, perché quel provvedimento è sacrosanto e rappresenta un punto qualificante di una stagione di governo capace di voltare pagina dopo anni di qualunquismo dispensato con la pala. Ma dai, che senso ha un sistema in cui un ministro guadagna molto, ma proprio molto, meno dei suoi principali collaboratori? E qual è il motivo ragionevole per cui lavori «usuranti» come quello di ministro (soprattutto nei dicasteri più delicati) debbono essere in fondo alla classifica delle retribuzioni tra le figure di vertice delle istituzioni?
Il qualunquismo della polemica sugli stipendi
Un po’ serio e un po’ scherzoso ha detto bene Maurizio Gasparri: trovi il Parlamento il coraggio di adeguare i propri emolumenti al livello dei ministri non eletti alle Camere, scenario che non troverebbe mai e poi mai sostegno in quelle opposizioni che hanno gridato allo scandalo. La destra al governo ha il dovere di chiudere con la stagione (generatrice di danni incalcolabili) della politica come «roba sporca»: basterebbe vedere cosa accade in quello che fu il più importante gruppo industriale d’Italia (quello con il quartiere generale a Torino, almeno una volta) per riscrivere la classifica dei patrioti degli ultimi trent’anni.
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E allora ecco che tornare alla dignità della politica, al valore del lavoro nelle istituzioni (governo in primis) è passaggio ineludibile se vogliamo dire con animo convinto ai più giovani che quella carriera è cosa buona giusta, che non è materia per sfaccendati ricchi di famiglia. Diciamolo senza retorica (ma diciamolo), che la politica a tempo pieno è una gran fatica. E diciamo anche che le istituzioni sono democratiche solo (ed esclusivamente) se innervate da donne e uomini che dedicano la propria vita alla politica. Chiudiamo così la stagione delle buffonate, quelle che hanno provato a raccontarci che la povertà era stata abolita. Passiamo alle cose serie, che costano il giusto.