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Animalisti a targhe alterne, Feltri: ma attenti al lupo che è più saggio di noi

Vittorio Feltri
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Attenti al lupo perché potrebbe essere molto più saggio di voi. In un paesino del Veneto pare sia salito in cattedra per spiegare ai ragazzi che questa smania di perseguitarlo non va affatto bene. Era accompagnato da un educatore cinofilo e gli studenti lo guardavano aggirarsi spavaldo nella palestra dell’istituto domandandosi quando si sarebbe trasformato nel mostro cattivo delle fiabe. L’animale (incrocio tra un lupo europeo e un cane da pastore olandese) li ha lasciati sbirciare e indagare. Li ha avvicinati, li ha annusati, ha persino afferrato qualche biscottino succulento dalle mani di un adolescente pallido che non si capacitava di tanta bontà. Poi si è accoccolato sul pavimento, tra gli zaini pieni di libri e vicino alle scarpe da ginnastica intrise di umido e odori, per nulla infastidito da quell’allegro baccano e dimostrando a tutto il mondo e alla sua coscienza che non solo convivere con un lupo è possibile, a tratti appagante, ma che tante persecuzioni e fantasiose allucinazioni sono prive di fondamento. Si comprendono le ragioni degli agricoltori, preoccupati di proteggere le loro povere galline e il loro gregge. Ma non si possono ignorare quelle di un animale cui per definizione piace aggirarsi indisturbato nella foresta, fedele alla famiglia e al branco con uno zelo e una compassione che noi umani ignoriamo.

 

 

 

Deve essere tutta colpa di quel matto di Esopo. Lupus in fabula è farina del suo sacco che riproponeva il «lupus-lupi-lupo» nelle favole con malcelata ossessione al punto da renderlo il convitato di pietra di ogni narrazione. Quasi che il mistero, le tenebre, persino il fascino del male fossero racchiusi davvero in un esserino grande poco più di un cane che si fa i fatti suoi e caccia solo per sopravvivere. Da allora il lupo è l’archetipo della paura. Dietro la porta dei bimbi che faticano ad addormentarsi la sera. Nei vicoli bui percorsi dai passi spaventati delle donne. Nei sogni degli uomini tormentati e persi. Avvistato. Cacciato. Scuoiato. Lasciato a marcire nella sua ingenerosa fama. Gli occhi gialli della notte che scavano l’anima o forse la portano via dubbiosa. Il vergare popolare che intinge la penna nel suo arcano passato e compone detti ingenerosi e ferini (in bocca al lupo, il lupo perde il pelo e non il vizio...). Persino Dante lo prese in prestito come simbolo di un’avidità di denaro e ricchezza che farebbe piegare dalle risate quell’uomo umile e pio di San Francesco. Mentre il grande carnivoro poveretto - peraltro riconosciuto specie protetta senza averlo mai chiesto e assurto per volontà di dio al vertice della catena alimentare - chiede solo il meritato riposo. O di guardare il mondo con un occhio bendato per contenere il brutto spettacolo degli umani che gridano al lupo al lupo, come suggeriva Pennac. Tremila esemplari in Italia. E si tengono a debita distanza da noi. La zanzara può uccidere un uomo, il lupo mai. Anche una vespa è più pericolosa.

 

 

 

Non dobbiamo stupirci però, siamo il paese degli ipocriti. Predichiamo l’onda green e la biodiversità eppure perseguitiamo amabilmente certa fauna selvatica. Teniamo in casa milioni di animali e non ci frega di salvare quelli fuori. È appena stata approvata alla Camera una legge che punisce chi maltratta o uccide gli animali. La relatrice, Michela Vittoria Brambilla, l’ha perseguita con passione e tenacia convinta che pene più dure per i carnefici degli animali (fino a 3 anni di carcere) e il riconoscimento dei sentimenti delle bestiole siano la svolta che attendevamo. Ma il paese distratto bofonchia, se ne frega, si gira dall’altra parte.
Un miracolo che i giornali ne abbiano parlato. Anzi, sapete. Chi scrive di animali è considerato un mezzo sfigato nelle redazioni. Taluni inventano pseudonimi assurdi pur di non apporre la firma al tema animalesco. Altri si cimentano in discorsetti leziosi su quanto sia raccomandato possedere un cane ma degradante raccontare le sue imprese. Sono scemi. Perché non hanno capito un tubo di quanto gli animali siano popolari. E amati dai potenti e dagli ultimi della terra. Conosco un prete influencer che parla più volentieri ai barboncini del paese che alle beghine della sua parrocchia e pagherebbe un santo per sostituire con una muta di cani i chierichetti muti seduti intorno all’altare.

 

 

Persino Ratzinger, l’algido papa che stupì il mondo con le sue dimissioni, conquistò i fedeli per la sua erudizione e la sua eloquenza potente. Ma entrò nei cuori solo quando svelò ai fedeli la sua passione per i gatti e qualcuno si accorse che ogni mattina, prima di varcare la soglia dello studio della congregazione per la dottrina della fede, andava a nutrire una colonia di micetti randagi affamati e soli. Della mia passione per gli animali, cominciata da ragazzo con un gattino di nome Vecio che viveva in simbiosi con me e mi dormiva accanto scaldandomi le notti e rendendo lievi i miei sogni, ho raccontato assai. E non mi sono vergognato mai di predicare il gattolicesimo. Che sia amore per altri milioni di italiani è fuori di dubbio. C’è anche chi muore per loro. Come il povero tartufaio di Pianoro. Si è calato a testa in giù in un tombino per salvare il suo animale caduto nel vuoto ed è morto asfissiato in una manciata di secondi. Ho pensato ai suoi 78 anni e mi sono chiesto dove avesse trovato la forza e l’amore per spezzarsi volentieri la schiena e poi la vita dietro un cane da tartufi. Naturalmente di lui si è già persa ogni traccia. Un breve resoconto in qualche giornale locale del Paese degli animalisti a targhe alterne. Qualche volta animalisti. Qualche altra cacciatori. A seconda della convenienza. Ma ogni santo giorno a rompere le balle al lupo e all’orso.

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