Feltri, lettera aperta al padre di Giulia Cecchettin: "Di fronte al male non sa odiare"
Caro Cecchettin, le scrivo da padre a padre. Ho seguito con apprensione la tragedia che ha travolto la sua povera famiglia. Prima come cronista e poi come uomo. E quando dopo indagini, pedinamenti, sospetti è venuto fuori che il ragazzo con cui dividevate il desco nei giorni di festa, e che veniva a trovarvi la sera proferendo promesse d'amore, aveva preso sua figlia in un novembre misero come questo e l'aveva brutalmente uccisa, ho tremato. Ho vacillato. Mi sono tenuto stretto alla seggiola perché tanto male non si tollera e neppure si scrive sul giornale. Guardavo le foto di Giulia e pensavo al dolore soffocante di lei padre, rimasto solo con due figli da crescere e cui far credere che il mondo avesse ancora un senso. Anch'io, lo sa, mi sono trovato vedovo e solo con due gemelle neonate, ma una malattia aveva portato via la mia giovane moglie, non un demone con la faccia da studente e il sorriso da impiegatino delle poste. Come farà, mi sono detto, quel Gino che sembra solo un ragazzo e porta il nome che si dava a Milano alle persone oneste e perbene sempre chine sui doveri e il sorriso che non viene mai meno? Chi ci sarà al suo fianco?
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Poi l'ho vista comparire nelle trasmissioni televisive, al funerale della sua bambina, ai microfoni delle domande più indiscrete e morbose, e aveva sempre la faccia dell'uomo buono che ha assemblato la disperazione e prosegue imperterrito la sua strada. E mi sono detto «quel padre è un santo». Io vacillerei, piangerei, prenderei a pugni i muri, caverei dalla tomba il monsignore amatissimo che mi ha tirato su a pane e latino solo per chiedergli una mano a districare il mistero. E invece lei ha dato una mano a tutti gli altri, ai padri che non comprendevano, ai figli che domandavano, li ha sorretti, li ha accuditi, ha usato parole di indulgenza persino per i genitori di Turetta vedendoli in quella palude di disperazione che accomuna tutti i padri e le madri davanti alla sconfitta di un figlio assassino. Poi ha scritto un libro e portato nel mondo la testimonianza di Giulia. E ancora non urlava lo strazio e ancora non faceva uscire la rabbia. Forse lo faceva nel segreto del suo cuore, o chiuso nel bagno la sera tra i trucchi di Giulia e i riflessi della bellezza che era stata, dopo aver sparecchiato la tavola e infilato in un dialogo sghembo i convenevoli della giornata.
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Persino Elena, sua figlia grande, così battagliera, così volitiva, così solida nel suo dolore, ha tremato alla vigilia del processo e ha detto «non sarò in aula, devo prendermi cura di me stessa». Perché non ha rancore e neppure sete di vendetta? Per quelli che verranno? Per dare un senso alle ore? O forse perché teme che la rabbia sia il principio dell’abisso e possa scavare solchi e minare le pareti? Io non comprendo, sono sincero. È vero che bisogna lasciare andare i figli e darsi pace, ma non quando i figli ce li porta via una morte orrenda. Non quando i figli cadono sull’asfalto e piangono di dolore perché un imberbe senza midollo, che non sapeva accettare la fine di una relazione, ha giocato a fare l’assassino e il gioco gli è riuscito tanto bene. Io per esempio ho scoperto, invecchiando, che il pianto è un dolce placebo. Non guarisce le pene ma diluisce il tormento. Poi devo dirle che ho ripensato alla fede che non ho. Al dio in cui non credo e con cui non parlo mai. E mi sono detto, forse è lui, caro Feltri, che lo tiene ancorato a questo inquieto girovagare e trattiene la sua rabbia. Sono fatti così i cristiani: danno un senso a tutto, soprattutto alla morte, nel convincimento bizzarro che ci sia un paradiso che accoglie le anime dei nostri defunti. Ma lei ha detto di non aver fede e di non credere. Io stesso rido all’idea di vedermi seduto su uno scranno scomodo dell’aldilà a rompermi le balle con un dio saccente. Dunque qual è la forza che la sorregge, la fa andare avanti nel terreno impervio e molle del dolore, facendo finta che ci sia un domani, che si sopravvive, che Giulia non c’è ma le resta accanto? O forse no, sono gli altri figli, e questo già lo condivido, non si crolla per loro, non si urla davanti a loro.
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Però lei, l'altra mattina in tribunale, quando l’assassino ha ricordato i dettagli, i messaggi, le coltellate, gli occhi di Giulia che imploravano, le mani che le tremavano nel freddo e nell’incombenza della fine, ha detto «ho ascoltato tutto e non ho odiato». Lo odio io per lei, allora. Lo odio con tutto il cuore e non riesco a perdonare. E adesso che ho usato quella parola che mi sarei aspettato di sentire soltanto da lei, sa cosa le dico? Che l’ammiro tanto signor Gino. Perché io con il mio odio viscerale, atavico, ingombrante e greve probabilmente non insegno niente a nessuno. Mentre lei, con la sua compostezza, la sua dignità, la quiete del suo verbo, e del suo andare avanti, sta insegnando a molti ragazzi a diventare grandi. È questo che ci manca, il diventare adulti. Non le balle sulla società patriarcale. Non i dibattiti sul narcisismo del piffero. O sull’incapacità di accettare l’abbandono. Manca il diventare uomini. E adesso che ho sviscerato il mio tormento sento ancora più grande il suo e la ringrazio a nome di tutti. Anche di quelli come me che ancora non avevano compreso.