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Conte-Grillo, uno vale uno. Anzi no...vale 300 mila euro

Tommaso cerno
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Dopo avere abolito la povertà, con tanto di comizio dal terrazzino di palazzo Chigi, ai tempi del grillismo duro e puro di Giggino Di Maio prima maniera, Giuseppe Conte abolisce la ricchezza. Quella del Fondatore. Perché Beppe Grillo, dopo averci sfracassato i maroni con sprechi, sperperi, ruberie del Palazzo, crisi climatiche, etica e democrazia diretta, ci ha fatto sapere che non faceva il Garante del Movimento per ideale, ma più terrenamente, per incassare 300 mila euro l'anno dal partito che ha fondato. Soldi pubblici? Parrebbe di sì, se fossero quelli che vengono versati ai gruppi in proporzione al numero dei parlamentari eletti, il simbolo stesso di ciò che il comico genovese aborriva.

 

 

Evidentemente era uno sketch la famosa scatoletta di tonno diventato caviale. Uno non vale più uno, insomma, ma vale 300 mila euro. Tanto che subito è scattato l'esposto alla Corte dei conti, anche se vi dirò che è l'ultimo dei problemi. Quel che colpisce è la potenza virale del Palazzo, che ha trasformato in pochi anni i «rivoluzionari» in «poltronari» e i ribelli in emuli del Pd. Fino a rovesciare il famoso Vaffa rivolto a noi comuni mortali che andiamo a votare per i partiti nel Vaffa di un partito - quello di Conte al cittadino Grillo Giuseppe Piero, detto Beppe.

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