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Yahya Sinwar, una bella liberazione per gli stessi palestinesi

Roberto Arditti
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«Nel 1989, avendo orchestrato il rapimento e l'uccisione di due soldati israeliani e di quattro palestinesi che considerava dei collaborazionisti, Sinwar è stato condannato a quattro ergastoli da Israele, scontando però solo 22 anni di carcere fino al suo rilascio, avvenuto nell'ottobre del 2011, insieme ad altri 1026 detenuti palestinesi, in uno scambio concordato per la liberazione di Gilad Shalit, un soldato israeliano rapito nel 2006» (da Wikipedia). Quando impareremo (noi occidentali, democratici, liberali, progressisti e chi più ne ha più più ne metta) la dura lezione della storia: con i macellai non c’è trattativa, non c’è perdono, non c’è pentimento? La morte di Yahya Sinwar arriva dunque al termine di una giornata di combattimenti a Gaza, nella quale il feroce leader di Hamas conclude la sua vita votata a fare il male del suo popolo, quei palestinesi ai quali ha portato solo miseria e morte, con un colpo di cannone. È una buona notizia la sua uscita di scena? Sì lo è sotto ogni punto di vista.

 

 

 

Lo è per Israele, che raggiunge l’ultimo obiettivo strategico di primaria grandezza sul fronte nemico. Ma lo è anche per la causa palestinese, qualunque cosa dicano o scrivano le anime belle che si aggirano per l’Europa sorseggiando un aperitivo al grido di «Free Palestine». Ed infine lo è per l’intero mondo arabo, che ora si trova di fronte ad una occasione storica: decidere una volta per tutte se lavorare per un futuro di pace e progresso insieme ad Israele e non contro Israele. Sia chiaro però, la partita è tutt’altro che terminata. Sono infatti ancora numerosi i «macellai» che devono essere tolti di mezzo, poiché molti dei volti noti (grazie a filmati, fotografie e informazioni di intelligence) del 7 ottobre sono ancora in circolazione. E lo stesso vale per mandanti ed organizzatori. Su di essi non si può esercitare alcuna forma di indulgenza, poiché essi hanno scelto il male e lo hanno praticato per decenni, infliggendo innanzitutto a bambini, donne e anziani palestinesi sofferenze indicibili. Però è vero anche che sul piano politico siamo alla conclusione di una prima fase. È sotto gli occhi di tutti una qualche forma di precario equilibrio tra Iran e Israele: Tel Aviv sta rinviando da giorni la risposta agli ultimi attacchi missilistici.

 

 

Tutto questo può diventare l’inizio di un dialogo che mette a tacere le armi? Qualche piccola speranza c’è ma occorre dire la verità una volta per tutte: non è l’ONU (più irrilevante che mai) a poter giocare un ruolo decisivo. Può aiutare l’Occidente, a maggior ragione dopo le elezioni americane. Ma è necessario vedere i grandi paesi musulmani dell’area (Arabia Saudita, Egitto, Turchia, Qatar, Emirati Arabi) schierati per un futuro di pacifico vicinato. Sapranno i leader islamici a compiere questa scelta? Difficile dirlo allo stato. Intanto Israele ha messo in campo l’unica risposta credibile al 7 ottobre, cioè eliminare tutti coloro i quali l’hanno voluto ed organizzato. In Medio Oriente solo l’uso della forza determina lo stato delle cose. Chi non lo capisce continui con il suo aperitivo e la smetta di occuparsi di queste vicende: sono troppo serie per potenziali ubriaconi.

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