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Inchiesta dossier, la difesa boomerang di Laudati

Tommaso Cerno

Come un bambino colto con le mani nella marmellata, Antonio Laudati - appena saputo di essere finito al centro dell’inchiesta sui dossieraggi di Perugia - si attacca al telefono. Chiama i pm amici, così come inonda di mail i Palazzi del potere. Lo fa, a meno che non siamo tutti fessi, ben sapendo di essere intercettato, perché quel sistema - come lui stesso ci rivela - esiste da tempo e ha delle regole. 

Una specie di «Così fan tutti» che si trasforma frase dopo frase in un’aggravante e non certo in un’attenuante per chi, oggi, è coinvolto nell’inchiesta spioni. Il fatto che dai tempi dell’affaire Tim nel 2006, quando al governo c’era Romano Prodi e sotto accusa il faccendiere Igor Marini, qualcuno fra le toghe sapeva e agiva, significa due cose.

 

 

Che quel finale con un solo colpevole ebbe in verità una trama diversa da quella che conosciamo. E che in Italia si stavano mettendo le basi di un sistema di «preindagine». Ci dice questo colloquio che serviva a spaventare la politica, a influenzarne le decisioni, a condurre la giostra. E che passava per la Direzione nazionale Antimafia, quella voluta da Falcone. Ci dice anche che non sarebbe una coincidenza che molti ex procuratori Antimafia siano finiti in Parlamento. E che esiste davvero un anti-Stato. Che tutto poteva immaginare tranne di finire sul banco degli imputati. Come invece è per fortuna successo.