il commento

Dopo Israele siamo noi il nemico globale. Occidente nel mirino

Roberto Arditti

Anni, anzi decenni, di tolleranza verso Hamas ed Hezbollah. Anni, anzi decenni, di corteggiamento al regime assassino degli ayatollah ci hanno portato alla situazione di oggi, perché la storia presenta sempre il conto. Ad ogni modo però, vale la regola aurea del Medio Oriente: mai giudicare i fatti per come appaiono a prima vista. All’Onu i rappresentanti di molti paesi dell’area hanno espresso in queste ore dure critiche a Israele: così il presidente turco Erdogan, così i rappresentanti di Qatar e Giordania (ed altri ancora, Russia compresa). Molti in Europa, viziati da un pregiudizio ostile verso Gerusalemme, ne traggono affrettate conseguenze, sostenendo l’esistenza di un compatto fronte ostile alle scelte del governo Netanyahu. Si tratta però di analisi poco lucide, ideologiche, intrise di un pacifismo «un tanto al chilo».

 

 

Israele ha deciso di usare la forza, lasciando da parte ogni schema politico o diplomatico, questo è chiaro. Andiamo adesso ad osservare il comportamento delle nazioni musulmane che circondano Israele. Cominciamo dall’Arabia Saudita, la più ricca e potente monarchia del Golfo. Dotata di una imponente Aeronautica Militare (non meno di 500 aerei da combattimento), sceglie di assistere restando in disparte agli accadimenti. Poi la Giordania, che confina direttamente con lo Stato ebraico. Anch’essa si muove sul piano politico ma si tiene alla larga da ogni intervento militare, così come la Siria. Arriviamo all’Egitto: qui un solo fatto «vero» da registrare: il muro invalicabile eretto a protezione del confine con Gaza, volto al brutale contenimento di ogni sconfinamento palestinese. Infine la Turchia, con le critiche ad alzo zero del suo Presidente verso Netanyahu. La prima potenza militare della regione (oltre 600.000 persone sotto le armi, 700 aerei da combattimento) evita ogni coinvolgimento diretto, contravvenendo al tradizionale «interventismo» mostrato negli ultimi anni (Libia, Siria). Ecco allora che si inizia ad intravedere il vero contorno politico, diplomatico e militare di quanto sta accadendo, che si può riassumere nell’espressione «lavoro sporco».

 

 

Esattamente quello che tutti i giocatori dell’area stanno lasciando a Israele, il lavoro di mettere fuori gioco Hamas e la sua leadership di tagliagole e assassini, ridurre drasticamente la capacità militare di Hezbollah (in queste ore dilaniato dalla caccia ai traditori, come ben documentato su Il Giornale da Stefano Zurlo), costringere il detestato Iran, con i suoi sempre meno amati (in patria) ayatollah, a ridimensionare le proprie aspirazioni di Guida Suprema della destabilizzazione. Appare sempre più evidente che gli attori decisivi dell’area stanno provando a creare le condizioni per un nuovo equilibrio, nel quale non c’è posto per Hamas e simili, un nuovo equilibrio di cui poche ore fa il Presidente americano Biden, con un piede già fuori dalla Casa Bianca, ha parlato esplicitamente. Un nuovo equilibrio in cui non c’è posto per Yahya Sinwar e non c’è posto per Hassan Nasrallah: loro hanno scelto la guerra senza quartiere e non potranno mai sedersi al tavolo della pace. La politica e la diplomazia senza l’uso della forza sono una miserabile illusione per menti addestrate a guardare senza capire, a parlare senza pensare, a inveire senza conoscere. È una linea che l’Occidente, quell’Occidente di cui saggiamente ha parlato Giorgia Meloni a New York, farebbe bene a seguire ed incoraggiare. Dopo Israele, nemico locale, l’obiettivo siamo noi, il vero nemico globale.