L'editoriale
Perché non vi fate i Bersannacci vostri
Come un’esegesi del bellissimo termine «coglione», ci aspetta una gimcana fra lessico e diritto nelle aule di tribunale. Senza che ancora si levi unanime un bel chissenefrega alla querelle Bersani-Vannacci, duello idiota, di cui agli italiani non interessa un fico secco. Tantomeno a fine estate con il conto in rosso e la scuola che ricomincia. Anche perché i due contendenti giocano per il pareggio e si somigliano straordinariamente nell'Italia delle Salis e dei Soumahoro che si mettono a fare la paternale alla gente che lavora e paga le tasse, senza immunità da sfruttare o martelli in borsetta. Se Vannacci rifà il verso al suo livello ogni due per tre per far parlare di sé, sapendo cosi di finire in prima pagina e di trovarsi tutta la presunta intellighenzia a tirargli la volata come successe già in campagna elettorale, nulla di diverso fa l'ex leader Pd, da anni a corto di ruolo politico a sinistra, ma sublime battutaro colto, che ha trovato come Crozza il suo perfetto alter ego. E si attacca al generale Vannacci, che sembra sceneggiato apposta per far tornare Pier Luigi alla ribalta nei titoloni, negli sketch tv e sul palco delle feste dell'Unità. Tanto che lui chiede il processo e fa finta di difendere noi tutti non si capisce bene da chi fingendosi martire dell'ex parà che, al contrario, fu proprio lui a insultare dandogli del coglione dopo averci fatto venire il latte alle ginocchia predicando politically correct.
Eppure non possiamo incolpare né il generale, alle prese con il tiramolla «fare o non fare un partito» né l'ex ministro quasi premier che fu affondato da quel Matteo Renzi che oggi sembra innocuo se ci dobbiamo sorbire questa stucchevole tiritera. Perché lo sport di tirare fuori la testa in ogni modo è ormai sport nazionale. La necessità di occuparsi di facezie ad alto carico polemico, di avere un nemico, di gridare sventolando Costituzioni ogni santo giorno anziché dedicarsi alle questioni sostanziali della crisi del progresso dalla guerra alla povertà, dai nuovi monoteismi etici alla morte della classe media, deriva dal fatto che lo spazio politico è occupato - piaccia o no - da Giorgia Meloni. Ed è lei la ragione ultima di ciò che avviene altrove. Nel suo campo e in quello avverso. Dall'elezione di Elly Schlein al posto di Bonaccini, inimmaginabile se al governo non ci fosse salita una leader donna della destra, fino alla tenzone fra Lega e Forza Italia che oggi lambisce i temi dell'immigrazione e della cittadinanza ai bimbi nati sul nostro suolo ma domani chissà dove andrà a parare pur di mostrare le distinzioni.
Insomma, ciò che manca in Italia non è un governo legittimo, ma una alternativa legittimata. Capace cioè di occupare uno spazio non antagonista ma alternativo a quello di Meloni. Un passaggio a cui il Pd è disabituato dai tempi dell'ultima vittoria elettorale, datata ormai 18 anni fa, quando Romano Prodi tornò a Palazzo Chigi battendo sul campo Berlusconi. Fino a quando mancherà questo passaggio, che non è fatto di stravaganti cartelli elettorali o interviste più o meno riuscite sui quotidiani ma di una idea dell'Italia, piaccia o no, la politica bivacca intorno a casa Meloni, fino a lambire i confini familiari, come si è visto, sperando come al solito nell'aiuto esterno, nel trasferimento a terzi giudici di solito - il compito che la democrazia e l'articolo 49 della Costituzione affidavano invece ai partiti. Entità trasformate negli anni in convention permanenti, dotati di leader molto più simili a influencer che a statisti di questa o quella idea politica. In questo quadro monocorde la piazza antisemita prende il largo, mentre i big dei due schieramenti si sfidano nei tribunali. Verrebbe da chiedersi chi sia, citando Bersani, il vero «coglione» della faccenda. Perché la risposta non è difficile.