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Chirico: il femminismo va praticato, la sinistra sa solo predicarlo

Annalisa Chirico
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Il femminismo si può predicare o praticare. L’intervista di Giorgia Meloni al settimanale «Chi» disegna una via di destra al femminismo, inteso come sistema di pensiero e azione volto a migliorare la condizione delle donne. In questi anni la sinistra ha spesso «predicato» il femminismo anziché praticarlo: pensate al processo Olgettine, alla massiccia opera di sputtanamento patita da decine di giovani donne colpevoli di partecipare a cene galanti. Pensate alle pubbliche invettive lanciate dagli indignados di professione che, pur di colpire l’ex premier Silvio Berlusconi, non hanno lesinato le offese più triviali contro uno stuolo di donne, con il supporto mediatico di pseudofemministe e moralizzatori un tanto al chilo. Agli anni del moralismo militante sono seguiti gli anni della correttezza politica: la sinistra targata Schlein rinomina la festa dell’Unit* all’insegna della schwa e si impicca, boldrinianamente parlando, alle desinenze correttissime. È così che la lingua più bella del mondo viene mortificata sull’altare delle «sindache» e delle «ministre», orrori dei giorni nostri. Alla sinistra, insomma, è rimasta l’ideologia insieme agli asterischi, affare da pedagoghi più che da progressisti.

 

 

Non a caso, la prima donna a Palazzo Chigi l’ha portata la destra con Giorgia Meloni che, nell’intervista citata, punta i riflettori sulla sinistra chiacchiere e distintivo. «C’è una differenza sostanziale tra il pensiero conservatore e liberale e quello di sinistra - scandisce la premier Meloni - noi crediamo che il merito venga prima di tutto, loro pensano che le etichette vengano prima di tutto. Risultato: da noi non c’erano preclusioni per alcuno, ma ognuno doveva dimostrare il suo valore e dare il massimo. Da loro le donne hanno spesso pensato che il ruolo ricoperto dovesse essere una concessione di una classe dirigente prevalentemente maschile, o un obbligo imposto attraverso quote rosa. Ma quando pretendi di essere il capo perché lo dicono le quote, non riesci a esercitare la leadership».

 

 

Si torna così con i piedi per terra: le priorità delle donne italiane riguardano, per prima cosa, il sacrosanto diritto di lavorare senza perciò rinunciare alle gioie della maternità. Non che la gravidanza sia il destino ineluttabile di ogni donna, ma ogni donna ha il diritto di scegliere, e non c’è nessuna libera scelta nell’odioso aut aut lavoro o maternità. È una questione di giustizia sostanziale, è una fonte di discriminazione perché vale solo per le donne, che nel nostro Paese continuano a essere pagate meno degli uomini a parità di mansioni. Quanti sono stati i premier padri nei passati decenni di storia repubblicana? Forse non avevano una famiglia, dei figli, durante l’esercizio del mandato? Eppure l’attenzione si posa sulla piccola Ginevra che ha tutto il diritto di accompagnare la madre in missione per passare del tempo insieme, nella misura in cui si può. Le rinunce di una madre incaricata di guidare il governo del proprio Paese non sono neppure immaginabili, sono un costo invisibile per chi vola così alto. Ma la vera indignazione dovrebbe colpire chi muove quelle critiche strumentali per la presenza di una bambina in missione in Cina: sono lo specchio di un maschilismo strisciante che oggi trova terreno fertile, per paradosso, più a sinistra che a destra.

 

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