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Parigi 2024, Feltri non ha dubbi: le vere vincitrici dei Giochi parigini sono le donne

Vittorio Feltri
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Di queste Olimpiadi francesi ricorderemo probabilmente il colore verdognolo della Senna scandagliata dalla prefecture de police a caccia di escherichia coli, la tavolata dei trans che scimmiottava l’ultima cena e non era blasfema ma soltanto scema, e poi una serie di inezie come le 10 vomitate del canadese Mislawchuk, il cibo scadente del villaggio olimpico, i tuffi improbabili di una sindaca in crisi di consensi (Hidalgo) e il sacchetto di plastica infilato sulla testa del povero Mattarella perché nessuno aveva previsto che piovesse così tanto su un capo di stato italiano. Sportivamente parlando non è andata molto meglio: qualche bagliore, tante speranze e una manciata di medaglie che ci appuntiamo sul petto convinti di aver fatto bene ma aver sprecato diversi colpi in canna. Tuttavia c’è qualcosa che ha colpito l’attenzione anche di un sedentario come me ormai persuaso che lo sport sia meglio non praticarlo che praticarlo male: la forza delle donne. E dicendolo so di ferire l’amore proprio di fior di commentatori persuasi che le atlete siano passate in sordina su questo festival di zabette e soloni – tutti esperti di tutto, persino della break dance e dello smash del badminton. Lo dico senza enfasi: sono le donne le vincitrici morali della manifestazione più pasticciata della storia. E si elevano confortanti e suadenti dal grigiore di un evento che ha sprofondato in un abisso la Grandeur e Macron.

 

 

Non parlo di medaglie, non le ho neppure contate. Ma di quella dote che a noi maschi difetta (e di cui lor signore invece abbondano) di sapere attraversare i marosi della vita con determinazione e coraggio inebrianti. A partire dalla spadista italo-brasiliana Nathalie Moellhausen. È salita sulla pedana cinque giorni dopo il ricovero in ospedale per un tumore al coccige. Il dolore era talmente forte che ha vacillato, è collassata, è precipitata al suolo. Aveva il viso stravolto e gli occhi chiusi di chi invoca un balsamo o un santo. Ma ha messo insieme i cocci ed è tornata a combattere portando a casa una sconfitta dignitosa (mi pare 14 a 11) e la convinzione unanime del pubblico inebetito del teatrino olimpico di aver assistito a una prova eroica e a una lezione di vita. Analoga impressione ha fatto l’egiziana Nada Hafez, l’atleta di sciabola che ha gareggiato al settimo mese di gravidanza ribaltando il luogo comune che una mamma sia capace di niente, figurarsi di una prova di ardimento. Sferragliava e colpiva l’avversaria stretta nella sua tuta bianca e quando è arrivato il colpo della disfatta ha tolto il casco e versato lacrime e grida per una sfida improba in cui si erano cimentati in due, la mamma e il suo bambino, fieramente determinati a non darsi per vinti dopo aver attraversato «le montagne russe della gravidanza».

 

 

Formidabili le giovani, a dispetto dei cretini che pur anziani ed esperti delle faccende della vita non hanno capito un tubo della loro forza. Mi riferisco a Benedetta Pilato e a Francesca Fangio, entrambe nuotatrici esimie nello stile rana. La bella ragazza pugliese è sgusciata via dalla vasca e dal podio per un centesimo di secondo. E alla giornalista a bordo piscina che si preparava a raccogliere vagonate di improperi e rimorsi ha portato sorrisi e speranza, provando a spiegare che è stato il giorno più bello della vita e che piangeva non di delusione ma di gioia. Per questa suo fiero ottimismo di cui siamo tutti ampiamente carenti ha preso sberle in faccia dal pubblico in sala e a casa, compresa l’ex schermitrice Elisa Di Francisca, «ma ci è o ci fa», ha detto la campionessa, «mettetele i sottotitoli». Deprimente. Stessa tempra della Pilato ha dimostrato la Fangio. «Non credevo di fare un'Olimpiade – il suo commento a caldo - è il sogno di una vita e ci ho creduto fino in fondo. Sognate sempre, sognate tutti, non costa nulla ed è bellissimo». Pagherei per trovare un imberbe giovanotto nel raggio di mille chilometri che ragiona come lei. Ma trovo solo il deserto. Eppure anche l’atleta livornese è finita nella morsa dei cretini che «se non vinci non godo».

Naturalmente parlando di donne non posso esimermi dal commentare la disfida degli ormoni di questa triste olimpiade. L’italiana Angela Carini contro la pluriormonata algerina Imane Khelif. Mille ore di dibattito, di notizie che si rincorrevano su cromosomi x e y e transetudini varie. E tutto si è risolto in un minuto scarso, anzi 46 secondi, di incontro. Due pugni fortissimi e ben assestati sul volto e Carini ha giustamente mollato. Provo simpatia per entrambe, l’italiana che non ha desistito dalla sfida. E l’algerina che in quanto donna non poteva chiedere scusa della forza e del testosterone che le ha donato madre natura. Anche un cretino avrebbe capito che metterle insieme sul ring equivaleva a contrapporre un peso massimo a un peso piuma. Invece si è voluto dar fiato alle trombe e alle polemiche. E si è mandata la Carina allo sbaraglio. Risultato: la povera italiana ha ceduto sotto il peso dei pugni e di 32 ore di polemiche e allarmi. E la possente algerina non ha neppure potuto godere della sua vittoria dipinta come un fenomeno da baraccone prima, e come una spietata combattente poi. Nessuno che le abbia stretto la mano o si sia accorto di lei. Una donna venuta da un villaggio rurale dell’Algeria, cresciuta nella polvere del niente e di compagni che la vessavano, picchiavi anche tu o finiva lo spettacolo, e i pezzi di ferro che raccoglieva in giro e vendeva ai centri del riciclo servivano solo a salire sul ring. Un’altra occasione persa per una manifestazione che già passeggia sul crinale del fallimento. Naturalmente siamo solo a metà del guado. Ci aspettano ancora sorprese e chiacchiere vane e dalla Senna, chissà, potrebbe uscire anche uno squalo.

 

 

Ps. (mi dispiace sinceramente per le atlete spadiste impropriamente appellate dalla stampa dopo la vittoria: la francese, la veterana, la psicologa e l’amica della Leotta. Ma da un giornale «amico» della sinistra cosa vuoi aspettarti?

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