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Tra politici e giudici il primo round va alla magistratura. Autunno caldo per Meloni

Roberto Arditti
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Le nobili (e pacate) parole usate da Giovanni Toti in queste ore non spostano di un millimetro né la posta in gioco né il risultato della partita al suo primo tempo: 1-0 e palla al centro è il verdetto del campo. Nella dialettica (scontro, confronto, battaglia: ognuno scelga la definizione preferita) tra magistratura e politica (vietato scandalizzarsi, in democrazia i poteri collaborano e competono allo stesso tempo e nessuno può negarlo salvo mentire sapendo di mentire) la prima ha segnato un gol indubitabile, poiché ha dimostrato con i fatti che senza dimissioni non si arriva alla fine degli arresti domiciliari, mentre la politica ha dovuto arretrare accettando di rinunciare ad un principio ampiamente pubblicizzato (nonché sostenuto dal Ministro Guardasigilli in prima persona), quello secondo cui le indagini e i processi possono e debbono svolgersi in costanza del mandato elettivo, in omaggio ad una separazione di quei poteri appena citati da combinare con il principio d’innocenza sino a sentenza definitiva. Su questo c’è poco da discutere, ma sarebbe sbagliato considerare la vicenda puramente di carattere locale, poiché essa investe direttamente l’intera stagione di governo nata con il voto a destra del 2022, l’arrivo a palazzo Chigi di Giorgia Meloni, prima donna premier della storia d’Italia, la conferma della coalizione nelle urne per il voto europeo (a differenza di molti in Europa, Francia e Germania in testa).

 

 

È infatti ben evidente a tutti che una nuova stagione sul fronte Giustizia è asse portante per la vita di questo governo, anche perché altrimenti poco senso avrebbe un profilo come quello di Carlo Nordio a via Arenula. Ecco allora che queste vicende ridiventano centrali, come peraltro sempre accaduto nei passaggi cruciali degli ultimi trent’anni (cioè la Seconda Repubblica). La maggioranza che sostiene il governo c’è in Parlamento e c’è nel Paese. Ovviamente vive le sue divisioni interne, le sua ansie, le sue contraddizioni. Ma non potrebbe essere diversamente, perché questa è la vita di una coalizione politica fra diversi. Al tempo stesso però ha bisogno di affrontare l’autunno con solido piglio riformatore, poiché quella che arriva è certamente la prima stagione davvero difficile per l’esecutivo Meloni. Lo è perché a livello europeo le destre hanno mostrato più voglia di dividersi che di stare insieme, negando proprio a Giorgia Meloni quel ruolo di rappresentanza collettiva che per molti versi sarebbe stato naturale (persino Vox ha finito per scegliere un gruppo diverso da quello di Fratelli d’Italia). Lo è perché c’è una finanziaria difficile da fare, anche se i profeti di sventura possono essere serenamente mandati a quel paese: l’economia nazionale non va affatto male e persino le entrate fiscali sono migliori del previsto. Lo è perché su alcuni temi fondamentali (la guerra russa all’Ucraina o l’autonomia regionale differenziata, tanto per fare due esempi) le differenze di vedute non sono componibili, quindi si tratta di farle convivere senza pretendere di eliminarle.

 

 

Giorgia Meloni non esce rafforzata dal passaggio europeo, ma dispone di una solidità sul fronte interno che non c’è per Sanchez, non c’è per Macron, non c’è per Scholz. Se la può (e se la deve) giocare spingendo in avanti il suo progetto riformista, abituandosi a giocare su più tavoli ma senza tirare il freno a mano. E facendo grande attenzione sul lato Giustizia, chiarendo una volta per tutte quali sono gli obiettivi reali (e realistici). Sembra agosto, ma è già ottobre.

 

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