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Nord Est, se diventa la Caivano sotto le Alpi

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Tommaso Cerno
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La favola è finita. E non ha il lieto fine. Anzi, la morale - in senso classico, non quella che ci fa ogni giorno quel pezzo di sinistra che predica legalità e poi elegge Salis e Soumahoro - è: se nemmeno lassù al Nordest, nella ricca cittadina con le Ferrari in garage e i quattrini in tasca, nella mia Udine, ha funzionato, significa che l'Italia ha perso la partita con legalità, sicurezza e migrazioni. E l’ha persa da anni. Già, proprio Udine. La mia piccola città. Era fatta di luoghi comuni, era l'isola felice dove il tempo si è fermato, dove c'è il mito degli Alpini e si straparla del terremoto del '76, salvo poi che tre ragazzini muoiono annegati nel fiume Natisone mentre la gente li filma dal ponte, ed è diventata un luogo fuori dal comune. Spaventata, violata, impaurita si risveglia, un giorno sì e uno anche, con morti, pestaggi, accoltellati, bande che si sfidano nelle piazze, barboni con la gola tagliata. Al posto della polenta gira la droga come a Scampia, le risse in pieno centro si organizzano sui social le baby gang hanno uno slang proprio, picchiano e derubano i ventenni che tornano dalla pizza.

 

 

 

E poi un andirivieni notturno, frotte di immigrati fuori controllo che come una piccola Caivano sotto le Alpi prendono possesso dei parchi e li trasformano in ghetti. L'altro giorno una banda di delinquenti importati dal vicino Veneto con qualche pizzico di Magreb, hanno ammazzato Shimpei Tominaga, un giapponese figlio d'arte sulla cinquantina, paffutello e sorridente, che di notte ha avuto la strampalata idea di andarsi a mangiare un panino in pieno centro con un amico e di cercare di sedare una rissa. Non alzando le mani. Non buttandocisi. Solo chiedendo: «Dai ragazzi, fermatevi». Roba che si può fare pure a Tor Bella Monaca, senza lasciarci le penne. E invece lui no. L'ha visto Beppe, che le notti udinesi le ha inventate trent'anni fa, quello che quando passa lo salutano tutti, nel pieno centro della città, sotto l'angelo del Castello quando sono entrati cinque criminali, due che inseguivano degli altri ceffi insanguinati, e sono volate le botte finché un tizio di Treviso ha pensato bene di sfondargli il cranio e mandarlo all'altro mondo. Il sindaco Alberto Felice de Toni sulle prime se l'è presa come si fa qui in Italia non con l'assassino ma con chi denunciava che la sua città era diventata pericolosa.

 

 

 

Centinaia di episodi ormai sui verbali della questura. Centri per minori stranieri che spuntano come funghi: Aedis Onlus , Casa Inmacolata, Oikos. Ormai centinaia. Senza controllo. Senza orari. Senza niente. E poi la caserma Cavarzerani diventata un centro per immigrati adulti e che, ti raccontano a via Riccardo di Giusto, il quartiere che ha la nomea di essere la Suburra dei cattivi, è diventata un centro di spaccio che si sta facendo un nome fuori dai confini del piccolo Friuli. Ne parlano da mesi e nessuno fa nulla. Tanto quel casermone è sorvegliato a vista da sentinelle come nelle fiction. Dove non si riescono nemmeno a mettere le telecamere. Ma te lo dicono al bar, loro che ci vanno dentro, mentre le cosiddette istituzioni non alzano polvere, non vogliono allarme, non ammettono quello che è sotto gli occhi di tutti: se anche Udine è ridotta così, significa che il modello Italia su sicurezza e immigrazione è fallito. Se perfino qui si muore assassinati mentre si mangia un panino in centro, significa che bisogna ricominciare da capo.

 

 

 

E invece quando finalmente palazzo D'Aronco, sede del municipio, cambia registro, indice il lutto cittadino, è tardi. Nei locali del centro si parla di una fiaccolata. Non si capisce bene se per ricordare un amico che non c'è più o per denunciare un nemico che invece c'è e non ci dovrebbe essere. E intanto la città del vino, capitale del Friuli famoso per il suo tajut, il bicchiere di bianco bevuto con il gomito sul bancone, impone in risposta alle bande criminali che scorrazzano dappertutto, la stretta sull'alcol. Una provocazione perfino. Perché non risolve certo l'anarchia della violenza che ormai ha preso possesso di Udine, metafora dell'Italia che si vantava di essere diversa. e al tempo stesso distribuisce la colpa. Perché questo Paese non vuole ammettere che sull'integrazione abbiamo fatto in questi vent'anni un enorme buco nell'acqua. Perché questo Paese non sa quando è ora di dire «abbiamo sbagliato».

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