l’editoriale del direttore

Cerno: Ursula, il premierato e la sinistra reazionaria. Superata la linea rossa

Tommaso Cerno

Se trovo scontate - per logica aristotelica - le barricate del Pd contro l’elezione diretta del premier (dal 2007 ha sempre perso le elezioni politiche, ma quasi sempre governato l’Italia, sarebbero fessi a votare una legge che dà il potere a chi vince), quel che sfugge è che ormai siamo al di là della linea rossa. La linea che distingueva le democrazie elettive dalle oligarchie di potere. La linea che faceva del voto il pilastro culturale di un Paese e dell’esito elettorale le fondamenta su cui costruire un futuro condiviso. Lo scontro permanente in terra italica e la sciagurata parata di parrucconi ai vertici dell’Unione europea, che cerca di far finta che non sia successo nulla, ci portano dritti nella post-democrazia europea che ormai sembra la scenografia del nostro declino. Basta guardare la surreale formazione della nuova Commissione e la smania di Ursula von der Leyen di tornare a sedersi sulla cadrega. È talmente maccheronico il sistema e talmente distaccato dal banale ma chiaro significato del voto europeo di qualche giorno fa, che lascia intendere come del popolo alle vecchie classi dirigenti non interessi più un fico secco.

 

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Si attaccano alle leggine, fatte da loro, ai cavilli, alle elucubrazioni di rottami della democrazia come Olaf Scholz pur di dire che i cittadini non contano. Pur di arroccarsi ancora di più nel palazzo. A venerare i loro monoteismi, a partire da quello green, che hanno demolito la fiducia delle classi popolari e medie nei loro leader. Anche un fesso si renderebbe conto che – benché i numeri delle poltrone possano pure tornare sul pallottoliere del potere europeo – se dal voto di giugno uscirà la stessa minestra indigeribile degli ultimi cinque anni, il primo effetto sarà che gli euroburocrati e i loro feticci politici, Ursula von der Leyen in testa, convinti di blindarsi nel Palazzo, arroccati a decidere, faranno la migliore campagna elettorale possibile proprio alla loro arcinemica Marine Le Pen. Un errore di prospettiva che pagheranno caro. E che segna una classe politica preparata forse sui libri, ma lontana dalla polis anni luce. Una classe politica che rifugge in tutti i modi il voto, che si trincera dietro consuetudini e amicizie, legami personali e destini comuni, ignara che la base stessa su cui si fonda il rapporto di fiducia fra eletti ed elettori è minato proprio da questa storpiatura delle regole di buon senso.

 

 

Serve oggi consegnare ai cittadini una soluzione ai problemi che hanno posto e non certo insistere sull’ennesima rivendicazione di status quo, sinonimo di indifferenza verso la res publica se non proprio di strafottenza verso colui nel nome del quale il potere si esercita: il popolo. Non starò qui a discettare sulle miriade di proposte di elezione diretta che in questi decenni, e perfino prima, sono nate e poi decollate dai banchi di quella sinistra irriconoscibile che oggi si trincera dietro presunte difese ad oltranza della Costituzione, come se i padri che l’hanno redatta non ci avessero messo dentro le regole per cambiarla e come se ci fosse, ottant’anni dopo la guerra, una classe dirigente di cretini che non ha il diritto morale di toccare più nulla. Come se la civiltà democratica fosse data una volta, per sempre, e non fosse invece dinamica e perennemente affidata al legislatore. Dico soltanto che l’effetto che mi fa questa protesta è di chi sfugge all’occasione di rimettere in discussione le regole insieme. E, personalmente, trovo questo approccio elitario, oligarchico e perfino mafioso. Nel senso tecnico del termine: l’esistenza di una cupola di potere che decide che le regole non valgono per tutti allo stesso modo, per cui se vinci tu va bene, se vince l’altro no. L’effetto di questa mutazione delle democrazie è che chi sta all’opposizione dirà sempre di più «no», mai «no, ma...», finendo per perpetuare una classe dirigente che di fatto ammette di non avere gli strumenti per aggiornare il Paese ai tempi nuovi. E invece qualunque democrazia ha il dovere di evolversi, per definizione stessa di sè. Al contrario si è reazionari. E oggi stanno là dove un tempo si dicevano progressisti.