cronaca di una ritirata

Pd senza leader. Minzolini: ma quale sfida a Meloni, è già iniziato il dopo-Schlein

Augusto Minzolini

Puntuale, com’è nella tradizione del Pd della Schlein, è arrivato il contrordine compagni: il nome del segretario non sarà nel simbolo del Pd. Ma come sempre accade quando ad un attacco segue una precipitosa ritirata il bilancio della sconfitta è grave. Un vero e proprio boomerang che investe l’intero partito: a questo punto il Pd non ha né il nome del leader nel simbolo, ma neppure un leader. Anzi, se si vuole spaccare il capello, tenendo conto come si sono svolte le cose, non ha neppure il capo dell’altra anima del partito, quella cattolica-riformista, visto che Stefano Bonaccini, che sulla carta lo era, dopo aver garantito alla Schlein che avrebbe fatto digerire ai suoi la trovata del nome, è stato contestato dall’area cattolica e costretto alla retromarcia. Per cui anche lui è stato delegittimato come capo dell’ipotetica opposizione interna. Una debacle che evoca un epilogo traumatico: la segretaria per caso, che nessuno aveva visto arrivare, rischia davvero che nessuno la veda uscire. Insomma, siamo al masochismo puro, pardon per usare un’espressione che è andata di moda a sinistra, al tafazzismo tattico, dal nome del personaggio interpretato dal trio Aldo, Giovanni e Giacomo che per autolesionismo amava colpirsi i zebedei con una bottiglia di plastica vuota. Solo che in quest’occasione Tafazzi avrebbe un volto femminile. Eh sì perchè la Schlein ha fatto tutto da sola.

 

 

Rintuzzata sull’intenzione di presentarsi alle europee capolista in tutte le circoscrizioni, si è inventata la proposta del nome nel simbolo del partito per riaffermare la propria leadership. Un modo per legare la propria immagine ad un traguardo realistico, quello di riportare il Pd al 20%. Un’operazione ad alto rischio dettata dall’istinto di sopravvivenza. Solo che la prima qualità di un leader è quella di tenere duro al costo di perdere tutto, specie se per una serie di ragioni le elezioni europee per la Schlein sono diventate la battaglia della vita. Una regola aurea, che vale ancor di più in una fase come l’attuale che è carente di capi carismastici. Sono proprio le battaglie che battezzano i leader. Quindi l’idea non era neanche errata, ma la segretaria, come si fa quando ti giochi l’intera posta, avrebbe dovuto far bene i conti prima di osare. Avrebbe dovuto prevedere la reazione dei capi storici, delle correnti e degli alleati e degli avversari. E magari non escludere tra le possibili varianti anche i tradimenti. Siamo all’a, b,c della politica. Se non sei sicura non azzardi, non scommetti. Questo è, per usare un’espressione classica nel vocabolario comunista, avventurismo. Ma ancor più importante è l’imperativo che se lo fai non demordi. Se il dado è tratto non torni indietro specie se hai evocato con la proposta del nome nel simbolo un taglio netto con le tradizioni, i principi e la storia di un partito che ha sempre rifiutato le personalizzazioni.

 

 

Ora per la Schlein sarà davvero difficile rimettere insieme i cocci di un tentativo che alla fine è risultato improvvido. Di fatto si era proposta come leader e si è ritrovata un segretario «dimezzato». Anche il risultato delle europee conterrà meno rin rapporto al suo destino: se il Pd raggiungerà il 20% i suoi avversari interni o i suoi falsi alleati a questo punto potranno sempre dire che il successo è dovuto al fatto che la segretaria ha rinunciato a candidarsi in tutte le circoscrizioni e non ha messo il nome nel simbolo del partito come avrebbe voluto; se quella soglia non sarà raggiunta verrà indicata inesorabilmente come capro espiatorio della sconfitta. Eppoi come può un leader dimezzato, a cui il partito ha impedito di mettere il nome nel simbolo, diventare l’antagonista della Meloni? Come potrà giocarsi con Conte la leadership del campo largo? Ormai la frittata è fatta e forse siamo già al «dopo Schlein» senza che nessuno se ne sia accorto.