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Enzo Tortora, l'agenda delle condanne e il silenzio dei giustizialisti

Gabriele Di Marzo
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Non splende il sole per i giustizialismi. Non è un periodo d’oro per i giustizialisti mediatici. Quelli che crocifissero galantuomini come Enzo Tortora, per andare nel concreto. Sarebbe bastata una telefonata per evitare il suo massacro giudiziario. L’agendina del camorrista Giuseppe Puca, un numero di telefono e un nome scritto frettolosamente. Un inquirente, anche l’ultimo. Avrebbe potuto alzare il telefono e dire qualcosa come «Mi scusi, lei è davvero Enzo Tortora?». Nulla di più facile. Per scoprire che quel Tortora, scritto a penna, era si un Enzo, ma Tortona. Con la enne. E non certo il conduttore di Portobello. Non parleremmo, quasi certamente, del più grande caso di malagiustizia che l’età repubblicana annoveri.

«E se Tortora fosse innocente?» si chiese Piero Angela. Lo era. Ed era anche mediamente complicato non essere dalla parte dei giustizialisti di quei giorni. Che in Italia, onor del vero, non mancarono ieri ne mancheranno domani. Quelli per cui nel nostro Paese «Non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti». Solo per dirla alla Davigo. Da poco, banale coincidenza, condannato anche in Appello per rivelazione di segreto d’ufficio. Ma qui a scrivere non trova un suo fervente sostenitore, bensì un garantista fino al midollo. Per il quale l’ex pm di Mani Pulite è innocente fino a prova contraria. Sarebbe interessante sapere se la sua affermazione, di cui sopra, varrà ancora anche con sentenza ribaltata. O se la giustizia, per alcuni, è un po’ come il deserto. Bisogna solo attraversarlo, magari con poca acqua, per comprenderlo davvero. Anche se nel nostro Paese è sempre più diffusa la difficoltà di comprendere che, anche da un piccolo potere, possono derivare grandi responsabilità. E che alcune cose dette e fatte, a volte per partigianeria altre per connivenza, possono avere conseguenze catastrofiche.

Come sta emergendo in queste ore con il caso dossieraggio. Per il quale dovremmo ringraziare, un po’ tutti, la denuncia iniziale del ministro Guido Crosetto. E biasimare il silenzio, quasi scontato, dei giustizialisti mediatici. Quelli che, da Tortora in poi, hanno avuto l’agendina sempre piena di condanne ed inchieste da distribuire. Magari, se possibile, prima sui propri giornali. E poi, se necessario, anche nelle aule di tribunale.
Creando, irresponsabilmente, un cortocircuito tra pesi e contrappesi del sistema democratico. Dove la notizia è più importante del fatto, dove la forma è più appetibile della sostanza. Dove l’abuso del potere di controllo, evidentemente, è funzionale a costruire la notizia che possa metta in difficoltà l’avversario. Politico, sociale o personale. Un po’ come fecero i pentiti con Enzo Tortora. Alcuni di loro, anni dopo, confessarono di non gradirne l’eccessivo successo.

Perché il successo genera invidia. Che, delle volte, è proprio il motore che anche muove i giustizialisti mediatici. Quelli per cui, effettivamente, temo sarà una primavera poco soleggiata.

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