Patto di Stabilità, la lettura di Minzolini: “Accordo senza brindisi”
Alla fine ha prevalso la «real politik», la logica del compromesso, il timore di restare isolati. Alle 17,30 di ieri il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, si è preso l’onere di dire sì all’accordo sulla riforma del patto di stabilità che aveva preso corpo sull’asse Berlino-Parigi. Sicuramente l’intesa - salvo sorprese è meglio in alcuni numeri rispetto a quella che era stata adombrata dalla Germania nelle scorse settimane: ad esempio per portare il rapporto deficit-pil all’1,5 si andrà avanti per prossimi 7 anni e non più 4 come era stato previsto in un primo tempo, con una riduzione annuale del deficit dello 0,2%. Non è certo, però, una mediazione su cui si può brindare anche perché non si capisce ancora bene cosa abbiano portato a casa i cosiddetti Paesi frugali, quelli che hanno fatto della filosofia del rigore finanziario la loro Bibbia. Non per nulla mentre tedeschi, spagnoli, francesi e financo gli olandesi sprizzano gioia, il ministro dell’economia italiano mette le mani avanti e dice che «è sua abitudine non esultare mai» e parla di «spirito di compromesso». «Ci sono - ha spiegato - alcune cose positive e altre meno. L’Italia comunque ha ottenuto molto e comunque l’accordo è sostenibile per il nostro Paese per una realistica e graduale riduzione del debito e c’è attenzione agli investimenti specie quelli del Pnrr».
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Poi ha elencato gli aspetti dell’accordo che vanno più incontro alle richieste italiane: estensione automatica del piano connessa agli investimenti del Pnrr; l’aver dato giusto peso agli investimenti per la Difesa; lo scomputo della maggior spesa per interessi dal deficit strutturale fino al 2027. Su quest’ultimo punto resta l’interrogativo della data da cui sarà calcolata la maggior spesa per interessi. Certo il governo avrebbe preferito un ulteriore slittamento dell’adozione del nuovo piano di sei mesi, a dopo le elezioni europee. Tant’è che fino a ieri pomeriggio, a poche ore dall’annuncio di Giorgetti, uno dei ministri più impegnati nel rapporto con la Ue faceva capire che l’epilogo migliore per il nostro Paese sarebbe stato un ulteriore rinvio. Solo che il governo, a quanto pare, ha preferito non tirare troppo la corda, non andare oltre nel braccio di ferro per non indispettire i principali partner europei in una fase in cui stanno arrivando le risorse della quarta rata del Pnrre l’Italia ha già chiesto la quinta. E, ancora, ha pensato che non valesse la pena alzare la voce mentre a Bruxelles sull’immigrazione cominciano ad usare un linguaggio più coniugabile con quello della Meloni.
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Per cui a conti fatti hanno abbandonato lo «schema» sovranista dei pugni sul tavolo o dei «veti» e hanno scelto la strada, per dirla con Giorgetti, del compromesso. Ora, solo quando si conosceranno le parole scritte sull’intesa, si potranno soppesare i «pro» e i «contro». E, soprattutto, bisognerà verificare se il nuovo sistema, a differenza di quello che va in soffitta, sarà efficace, è il dubbio di scuola che pone sempre il ministro dell’Economia, «alla prova degli eventi dei prossimi anni». In più non va dimenticato che l’intesa innesca altre due questioni: la maggioranza dovrà dire di «sì» al Mes visto che la premier aveva legato l’ok italiano ad un accordo complessivo anche sul patto di stabilità; e, fatto non secondario, se come fa presente il commissario Gentiloni le nuove regole entreranno in vigore nella primavera del 2024, il governo dovrà mettere in cantiere una manovra per far fronte alla riduzione dello 0,2% del deficit previsto dal nuovo patto. Della serie i problemi non finiscono mai.
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