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Ferragni-Balocco, Paragone all'assalto: la solidarietà è un'industria, spesso la più truffaldina

Gianluigi Paragone
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Si sta discutendo parecchio sui social del pandoro solidale Balocco e della testimonial Chiara Ferragni a proposito di donazioni e beneficenza. Vedremo che evoluzione avrà la querelle sollevata davanti all’Antitrust, tra mail aziendali di denuncia e veri buoni propositi; però questa notizia ci dà la possibilità di fermarci a riflettere sulle campagne di solidarietà, sugli sms a sostegno di quell’ospedale o di quel centro di cura o della costruzione di scuole in Africa eccetera eccetera. In questi giorni di corsa ai regali natalizi, l’industria della solidarietà viaggia a mille tra banchetti in strada per togliere dalla strada i disperati di ogni continente; iniziative in negozi, centri commerciali e supermercati per adottare a distanza i bimbi poveri (a favor di obiettivo così da essere più generosi); maratone benefiche (anche in televisione) per curare chi sta male; vendita di fiori e di piante per la ricerca, «cartoline regalo con donazione annessa» in luogo dei «soliti regali inutili»: insomma ogni occasione è buona per dimostrare quanto siamo buoni specie a ridosso della nascita del Bambinello. Ancor più quando si raccoglie l’invito di un personaggio della tv, della musica, del cinema o della moda: l’influencer accresce i like quando nelle sue pagine si mette in... posa benefica. Le star hanno capito che prestare il proprio volto e il proprio corpo per campagne impregnate di bontà e di altruismo comporta una rendita di immagine.

 

 

«Si fanno pagare quando si prestano a iniziative benefiche?», si domanda frequentemente la gente comune, la quale - come dimostrano alcuni sondaggi è più disposta a donare se c’è un vip che glielo consiglia. È un po’ come sentirsi parte della stessa combriccola. La beneficenza va su tutto e fa fare bella figura, abbinando solidarietà e vanità. E spesso è pure un bel vantaggio fiscale, che non guasta. Ma delle donazioni quanto arriva davvero a destinazione? Dipende, non tutte le campagne sono uguali: qualcuna procede spedita, qualche altra invece si infrange sugli scogli delle denunce alla magistratura. Altre ancora invece «smezzano» l’obiettivo con le spese della macchina. «L’industria della carità» è un bel libro scritto da Valentina Furlanetto (con prefazione di padre Alex Zanotelli) edito da Chiarelettere che, attraverso storie, testimonianze inedite e letture dei «loro» bilanci (quando si riesce visto che in Italia non c’è obbligo di pubblicare un vero e proprio bilancio economico-finanziario), fa luce sulle parecchie ombre, ambiguità o contraddizioni di chi opera nella solidarietà.

 

 

Leggiamo: «Per salvaguardare oceani, balene, foreste, ambiente, Greenpeace Italia ha utilizzato 2 milioni 349mila euro, meno di quanto spenda per pubblicizzarsi e cercare nuovi iscritti: 2 milioni 482.000 euro». Del resto guardando le assillanti campagne social o di comunicazione di queste organizzazioni solidaristiche ero curioso di sapere quanto spendessero. Il libro della Furlanetto mette nero su bianco alcune cifre. E tanto ci basta per capire che la povertà o l’altrui bisogno diventano un prodotto da vendere. Qualche anno fa Linda Polman realizzò una ricerca analoga dal titolo «L’industria della solidarietà» e idem fece Dambisa Moyo su «La Carità uccide, ovvero come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo Mondo». Tre libri diversi nel campo d’indagine ma che ci aiutano a comprendere che la modalità più sbrigativa che impieghiamo per sentirci in pace con la sofferenza altrui è spesso la più ipocrita. Se non addirittura la più truffaldina.

 

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