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Governo, Chirico: serve un'alleanza con la parte buona della magistratura contro l'arroganza eversiva

Annalisa Chirico
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Rosario Livatino, il magistrato siciliano ucciso dalla mafia a soli 38 anni, amava ripetere che alla fine dell’esistenza non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma credibili. La fede, come la professione, si può vivere come una chincaglieria da esibire o, invece, come una missione capace di trasformare le nostre vite. I magistrati italiani, da tempo in coda alle classifiche per tasso di fiducia dei cittadini, dovrebbero partire dal coraggio esemplare di un uomo credente, e credibile, come fu Livatino, per recuperare l’autorevolezza di un ordine fondamentale in ogni sistema democratico. Le toghe applicano la legge e amministrano la giustizia, sono un baluardo contro ogni strapotere, costituiscono un irrinunciabile contrappeso istituzionale. Le parole del ministro della Difesa Guido Crosetto hanno squarciato un velo di ipocrisia: che esista un’«opposizione giudiziaria» in grado di scardinare gli equilibri democratici lo racconta la storia degli ultimi trent’anni, da Tangentopoli in poi. Berlusconi è stato perseguitato da decine di processi (ed è passato a miglior vita con una condanna soltanto), Prodi vide sgretolarsi il suo secondo governo sotto i colpi di una inchiesta conclusasi poi con un nulla di fatto, a Renzi hanno arrestato i genitori, Salvini deve rispondere di sequestro di persona, Delmastro deve affrontare un processo dopo che i pm hanno chiesto il suo proscioglimento.

 

 

Ci sono poi le vicende, non meno drammatiche, di politici distrutti da inchieste rivelatesi, a distanza di anni, un buco nell’acqua (i casi più recenti, peraltro, riguardano due amministratori del Pd, l’ex sindaco di Lodi Uggetti e l’ex sindaco di Ancona Sturani). Che Meloni e il governo da lei guidato non abbiano le simpatie di alcuni segmenti togati è una realtà ineludibile. Non serve evocare fantomatici complotti, è sufficiente sintonizzarsi sulle frequenze di Radio radicale per scoprire l’armamentario ideologico dei «magistrati democratici» che, nel corso di riunioni pubbliche, si dichiarano autoinvestiti di una missione totale a difesa della Costituzione, in funzione «antimaggioritaria». Laddove i diritti fondamentali paiono minacciati o violati dalle maggioranze contingenti, tocca a loro ergersi a paladini della legalità costituzionale. In altre parole, una categoria della pubblica amministrazione, costituita da funzionari entrati in ruolo in seguito a un concorso pubblico, si dichiara pronta a intervenire in opposizione alle maggioranze democraticamente designate. I toni smaccatamente politici dei congressi e delle assise di questi «magistrati democratici» tradiscono la concezione battagliera e antagonista di un ruolo che meriterebbe, invece, continenza e sobrietà.

 

 

Per fortuna, parliamo di minoranze sparute, sempre più screditate tra gli stessi magistrati che non gradiscono le esorbitanze di taluni colleghi. Quando un magistrato parla a sproposito, getta discredito sulla categoria intera. Dei 9mila magistrati italiani quelli iscritti, per esempio, a Md sono meno di mille. L’esiguità dei numeri, tuttavia, non li rende meno pericolosi per la tenuta democratica. Il governo dovrebbe rivolgersi a tutti gli altri, alle migliaia di toghe che ogni giorno, nonostante la cronica carenza di risorse, profondono sforzi enormi per mandare avanti la macchina giudiziaria. Serve un’alleanza con la parte buona della corporazione togata: è una maggioranza da tutelare e rafforzare, contro l’arroganza eversiva delle minoranze politicizzate.

 

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