l'analisi

Giulia Cecchettin, quel "bravo ragazzo" non era tale e nessuno se n'era accorto

Gabriele Di Marzo

Faccio fatica a comprendere il meccanismo per il quale, un ragazzo, con pochi anni in meno rispetto alla mia generazione, arrivi a pensare che una giovane donna sia diventata roba sua. Che sia sua proprietà. Faccio fatica a comprendere perché i sogni, le speranze, l’amore da donare e ricevere di Giulia, avrebbero dovuto per forza di cose modellarsi al volere del suo fidanzato Filippo. Come se quest’ultimo si sentisse in dover di guidare sulla dritta via colei che, per qualche transitorio tempo, è stata la sua fidanzata. Come se lui avesse l’onere di scegliere e decidere la dritta via altrui. Secondo il proprio volere. Come se, in un contesto di scelte, armati di presunta superiorità decisionale, si sentisse non solo il bisogno, ma anche una patologica necessità di determinare tutto. Non solo la propria vita ma anche quella degli altri. E di un’altra, nello specifico. Studi, amicizie, eventuali trasferimenti. Tutto ciò che limita la libertà di sognare e quindi di essere. Qualcosa di aberrante.

 

La storia di Filippo Turetta e Giulia Cecchettin è cronaca, tragica, di questi giorni. Si è conclusa con la cattura di Filippo e il ritrovamento del corpo di Giulia. L’epilogo, per lei, più drammatico. Con una serie di dettagli, agghiaccianti, che lasciano davvero senza parole. Ma, questa storia, non può essere derubricata solo a femminicidio. È molto di più. Non credo sia solo un caso se, la riflessione che più ha fatto il giro dei social, è quella dal titolo «È stato il vostro bravo ragazzo». Erano stati i genitori di Filippo, nei giorni scorsi, a definirlo tale. In un momento di sconforto misto a speranza, forse una sorta di auto convincimento. Un «non è possibile» detto diversamente. Però, invece, è stato possibile. E la cronaca di queste ore ha dimostrato l’esatto contrario.

Non so cosa spinga ad auto determinare il fatto che, un figlio, sia «un bravo ragazzo». È il segnale di una cultura sociale contemporanea che tende a non cogliere alcuni gesti, a non dargli la giusta importanza, o forse a minimizzarli. A derubricare atteggiamenti possessivi come passeggeri. O, nel peggiore dei casi, come protettivi. Quando bisognerebbe spiegare, sin da subito, che possesso non è mai amore. Questa storia è anche, per alcuni versi, il fallimento di un mancato dialogo generazionale. È quell’idea che «l’altro», quello cattivo, davvero mai potrebbe essere nostro figlio, nipote o fratello. Perché se il racconto, prevalente, continua ad essere quello della massima perfezione, allora l’ammissione dell’errore è impossibile.

 

Si tende a nascondere piuttosto che, come dovrebbe essere, a sottolineare. Come se dovesse vincere sempre il concetto per il quale un errore è meglio negarlo che affrontarlo. Soprattutto se riguarda tuo figlio. È questo il limite che si sposa bene con la contemporaneità dei falsi invincibili. Dove non accettare il rifiuto, il fallimento e la fine, anche di una relazione amorosa, rappresenta un meccanismo estremamente pericoloso. Perché amore non è imporre ad una giovane ragazza, a nessuno, proprie volontà. È dialogo, mai uso della forza. È incontro, non scontro. Amore è sostenere, mai sopprimere. Amore è vita, è esserci, ma soprattutto è libertà è mai possesso. E serenità. Amore è rispetto o, semplicemente, non è. Quello che, evidentemente, avrebbe meritato Giulia Cecchettin. Giovane ragazza uccisa perché, quel «bravo ragazzo», non era poi tanto tale. E, quasi nessuno, se ne era accorto. Dramma nel dramma.