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Caro Vespa, Conte non ha la statura di Ghino di Tacco

Riccardo Mazzoni
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Nel nuovo libro di Bruno Vespa, «Il rancore e la speranza», appuntamento editoriale come sempre imperdibile, un capitolo è dedicato a Conte com’è giusto che sia, visto che da ormai cinque anni è un protagonista a tutto tondo della politica italiana. Tutto giusto, quindi, salvo un paragone che stride, sia storicamente che politicamente, perché alquanto improprio. Vespa scrive infatti: «Ricordate Ghino di Tacco? Bandito duecentesco di Radicofani (Siena) che, dall’alto di una rocca, decideva la sorte dei passanti. Bettino Craxi ne assunse il nome per firmare i suoi corsivi sull’Avanti! E ne aveva titolo, perché nell’ultima fase della Prima Repubblica le sorti dei governi erano nelle sue mani. Ecco, Giuseppe Conte può essere il Ghino di Tacco della sinistra italiana di oggi. Senza di lui, il Partito democratico non può vincere».

 

Ebbene, il raffronto non regge, non può reggere, perché sia la genesi che l’epopea di Ghino di Tacco appartengono a un rango infinitamente superiore al trasformismo dell’avvocato del popolo. Radicofani rappresenta infatti uno dei simboli della narrazione di Craxi, che si appropriò del nomignolo beffardamente affibbiatogli da Scalfari trasformandolo in un formidabile strumento di lotta politica: l’allora presidente del consiglio, con la sigla GdT, si prese infatti la libertà di far sapere ad alleati e avversari quello che da Palazzo Chigi non poteva dire, per svergognare «mentitori e mestatori» e svelare spesso scomode verità. Fu l’astuto machiavello di un leader che non smise per un solo momento di battersi per le sue idee, con la ferrea volontà di cambiare il corso di una sinistra soffocata dall’egemonia del Pci. Craxi, con l’ottimismo della volontà, fu l’innovatore per eccellenza della democrazia italiana, oltre che il massimo guastatore dello status quo compromissorio, e il modello «Ghino di Tacco» (il bandito gentiluomo che piaceva a Boccaccio) gli si attagliava perfettamente, perché la scomoda posizione del Psi tra i due colossi democristiano e comunista esigeva un movimentismo duttile e creativo, e nella palude politica della Prima Repubblica a Craxi la qualifica di brigante non dispiaceva affatto (ma non fu mai un bandito, fu semplicemente un grande statista). Costretto a farsi largo nel sistema bloccato della democrazia italiana, il segretario socialista si mosse sempre sfruttando al massimo la posizione strategica del suo partito, che era centrale nelle alleanze nazionali come in quelle locali, ma a quella necessaria tattica di sopravvivenza seppe sempre abbinare una visione istituzionale illuminata. Per questo si fece promotore, sapendo che il Pci lo avrebbe accusato di autoritarismo, della riforma presidenziale dello Stato, convinto com’era che le istituzioni avevano bisogno di una scossa decisionista, e sulla scorta del successo di Mitterrand in Francia vide nell’elezione diretta del capo dello Stato anche il mezzo per ridefinire i rapporti a sinistra.

 

Negli anni in cui le vittorie di Reagan e della Thatcher avevano innescato in Occidente un’onda liberista, Craxi tentò di ritagliare uno spazio alla sinistra riformista conciliando mercatismo e stato sociale. Anche in questo fu un anticipatore, avendo preconizzato prima di tutti l’implosione dell’universo comunista, con l’affermazione dell’autonomia socialista dopo i lunghi anni di sudditanza politica. Questo e molto altro è stato Bettino Craxi, e Ghino di Tacco gli servì come corrosivo alter ego, ma sempre all’interno di un percorso di alta politica che non aveva nulla a che vedere con il trasformista Conte, premier di due governi di opposto colore e ora alla testa di una compagnia di giro in caduta libera. Craxi lottò come un leone per far prevalere il riformismo sul massimalismo, mentre nelle convulsioni del rapporto Conte-Schlein non si intravede certo il respiro necessario per una strategia in grado di rilanciare la sinistra, ma solo il duetto fra due populismi. Certo che la sinistra avrebbe bisogno come il pane di un Ghino di Tacco, ma mettere al brigante di Radicofani la pochette dell’avvocato del popolo è una forzatura che fa titolo ma non sostanza, perché Ghino uno come Conte lo prendeva di tacco.

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