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Paragone dopo l'attentato in Francia: "Adesso chi tiene tutti questi musulmani?"

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Gianluigi Paragone
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In Francia lo sanno da tempo: le ferite della stagione post coloniale sono ancora aperte e il fallimento dell’assimilazionismo è sancito dagli scontri che puntellano le città francesi a più alta percentuale di musulmani, delle quali solo alcune diventavano notizia perché il livello di preoccupazione era salito oltremisura. E poi le decisioni del governo di vietare l’ostentazione di simboli religiosi nelle scuole e in altri luoghi dove l’amministrazione non vuole alcunché che intacchi la laicità dello Stato. Forse anche per questo avevano chiuso le frontiere a nuovi migranti. Sono tante le «spie» rosse che si accendono sul cruscotto di chi deve tenere a bada oltre cinque milioni di musulmani. E così, dopo le proteste di settembre fuori dalle scuole, ecco la grande sfida al governo che, all’indomani dell’attentato terroristico di Hamas contro Israele, aveva vietato cortei pro Palestina per evitare rigurgiti antisemiti. È finita proprio come temevano: i musulmani hanno forzato la mano, hanno sfidato le regole del governo e hanno sfilato lo stesso. Ingaggiando pesanti scontri con le forze dell’ordine. E c’è da scommetterci - sfide di questo tipo sono destinate a crescere. Si tratta di una pericolosa prova di forza tra chi si sente ormai forte di una comunità coesa, radicalizzata, pronta a prendersi ciò che lo Stato gli nega in forza di una legge o di una disposizione.

 

 

Nel giro di poche ore in Francia e in Inghilterra (altro esempio di integrazione fallito, sebbene qui si parli di multiculturalismo: il famoso modello Londonistan) il timore di scontri o addirittura attentati ispirati da una emulazione identitaria sale di intensità. Nel Nord della Francia un insegnante di lettere è stato ucciso a coltellate alla gola da un attentatore di vent’anni, al grido «Allah Akhbar». A Parigi, un giovane di 24 anni, è stato fermato all'uscita da una sala di preghiera a Limay, nella banlieue di Parigi: aveva con sé un coltello da cucina e si apprestava ad entrare in una scuola. In Inghilterra invece la Federcalcio non ha voluto illuminare lo stadio di Wembley con i colori della bandiera israeliana sebbene in passato la solidarietà fosse stata espressa contro chi era stato un bersaglio di attentati. Anche in Italia il livello di attenzione ci ha portati a rivivere ciò che si materializzò dopo l’11 settembre.

 

 

Eccoci dunque nel punto di orizzonte che più volte, parlando di immigrazione, indicavamo: chi controlla tutti questi migranti di fede musulmana? Chi, terminata la polemica sugli sbarchi, sulle ong e sui centri, monitora comunità sempre più numerose e fortemente identitarie? Era il monito con cui ci lasciò Oriana Fallaci, le cui parole avevamo frettolosamente riposto nel cassetto intontiti dalla calma apparente. Ora però l’attentato di Hamas ai danni di Israele ci ha svegliati e ha svegliato anche chi, nella difesa della Palestina, vede la materializzazione del conflitto tra Islam e Occidente come il sale di una missione più alta. I segnali più piccoli di una sottile rivendicazione c’erano già stati: bastava analizzarli. Ma noi eravamo troppo presi dal litigio sui fascisti che ritornavano per accorgerci della radicalizzazione in corso. Un’altra sconfitta della «timida» Europa.

 

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