il commento

Salario minimo, Paragone esorta Meloni: il governo si prenda questa bandiera

Gianluigi Paragone

Toh, il sindacato in piazza. Dopo gli anni di governi nati fuori dall’urna ma spalleggiati da «quelli che contano», quelli che hanno i giornali e le tv e ti coccolano perché nelle foto ci vuole sempre quello che fa il cattivo, ecco che la Cgil di Landini torna a sfilare da solo, mettendosi sulla corsia di sinistra visto che il Pd della Schlein si fa fregare da quel furbastro di Conte. Landini non si farebbe mai dire dalla Gruber: «Ma se lei parla così non la capisce nessuno»; infatti va giù piatto mettendo assieme gli accordi giusti per un ritornello orecchiabile. L’opposizione a sinistra ormai sono in pochi a saperla fare, lui sì. Il Pd no, perché per anni perdeva le elezioni ma chissà come mai poi si ritrovava sempre al governo, in nome e per conto terzi. Dalla parte dei banchieri, dei mercati. Non certo del popolo. Nemmeno la Cgil, a esser sinceri, di popolo nuovo ne ha poco, però quello che ha lo alimenta bene, più con i patronati che con le lotte sindacali. La Cgil in piazza ad alzare i decibel di quel che Repubblica intona in bella forma: la peggior destra, la destra che fa il gioco dei padroni e delle banche, la destra amica dei furbetti eccetera eccetera. Certo, poi se vai a fare l’esame del sangue ai bravi, belli e buoni poi scopri che non tutti i valori sono in regola, ma poco importa. Così come non importa spiegare perché se il padrone si chiama Elkainn, i licenziamenti del settore diventano senza padri. E non importa nemmeno dare troppe spiegazioni sul «ciao ciao» all’ex storico portavoce. L’importante adesso è denunciare appunto chi attacca la magistratura, chi non vuole l’ingresso dei migranti, e chi sfrutta i lavoratori.

 

 

Il messaggio politico più forte torna a essere quello sul «salario minimo», espressione che nel marketing politico ha notevole presa al netto del suo contenuto. È sul salario minimo che il fronte dell’opposizione riesce a essere più incisivo, riuscendo a intercettare persino un elettorato di centrodestra, quello che più è in sofferenza. Sul salario minimo il governo rischia di incassare un gol in contropiede con la complicità del proprio difensore. Fuor di metafora io penso che il governo dovrebbe appropriarsi dell’espressione «salario minimo», dargli sostanza e articolazione attuativa. È infatti l’espressione in sé a catturare l’attenzione: né la Cgil, né il centrosinistra e né il Movimento hanno una messa a fuoco compiuta a parte la cifra messa come asticella; e il governo non ha torto quando vede i limiti della proposta. Se però affida al Cnel e a Brunetta l’attacco al salario minimo, per la sinistra sarà ancor più agevole guadagnare terreno: tutto ormai si gioca in una dimensione comunicativa, esattamente come quando Grillo riempì di sostanza il contenitore Cinquestelle con il «reddito di cittadinanza». L’allora governo di centrosinistra tentò di arginarne la forza comunicativa, invano. Quando una proposta azzecca lo slogan, lo slogan diventa contenuto e parte: tant’è che nessun contrasto al reddito rallentò la galoppata nonostante le solite domande: Come lo finanzierete? Dove sono le coperture?

 

 

Con il «salario minimo» si rischia lo stesso errore: la questione salariale sarà sempre più pregnante in una crisi che aggredisce proprio gli stipendiati e che strabocca il mero discorso del lavoro povero. Parlare oggi di mercato del lavoro rischia di essere controproducente perché è proprio il mercato a essere visto come minaccia. Giusto o sbagliato siamo sempre nella percezione di un nemico che ti frega i soldi e che si arricchisce mettendo sul tavolo dei soliti un conto da pagare sempre più caro. Ecco perché se fossi nel governo mi prenderei la bandiera nominale del salario minimo, interverrei quanto prima sulle buste paga e lascerei certi compagni di strada che non brillano certo per gradimento.