il commento
La piazza è simbolo del fallimento della sinistra trainata da Pd e Cgil
È inutile girarci intorno, c’è una parte dell’Italia (c’è sempre stata) a cui la piazza, qualunque piazza, piace moltissimo. E che non va molto per il sottile sulla qualità dei «piazzisti», tanto che spesso manifestazioni pacifiche sono infestate da frange di professionisti della violenza. Nelle democrazie l’attrazione per la piazza è fenomenale: chiunque ci vada, per il solo fatto di esserci, sente di aver ragione. Soprattutto per la sinistra la piazza è partecipazione, è democrazia, è sempre giovane e sana, ma troppo spesso è anche tafferuglio e insubordinazione verso la forza pubblica, che come a Torino finisce sotto accusa dopo essere stata aggredita, con il Pd che prende le parti dei violenti gettando più di un’ombra sull’operato della polizia. Ciò non vuol dire ovviamente che la piazza sia di per sé da bandire – questo accade solo nei regimi - ma si deve convenire con Elias Canetti che la massa in piazza è una brutta bestia, perché serve giustamente a sfogare le legittime frustrazioni di chi sta all’opposizione, ma si sente più «democratica» di chi governa, e questo è un pericoloso tic ideologico. Ieri la Cgil - quella che aveva annunciato in piena estate uno sciopero contro una legge di bilancio che non era ancora stata scritta - ha raccolto in piazza un centinaio di associazioni, a cui si sono pedissequamente accodati Pd e Cinque Stelle – per difendere la Costituzione contro autonomia differenziata e premierato, per il lavoro, per il contrasto alla povertà, contro tutte le guerre e per la pace, per l’aumento dei salari e delle pensioni, per la sanità e la scuola pubblica, per la tutela dell’ambiente. «Vaste programme», avrebbe ironicamente commentato De Gaulle ma, si parva licet, ci ha opportunamente pensato Calenda ad evidenziare il senso della manifestazione: «Elencheranno problemi ed eviteranno soluzioni», che è la cifra perfetta degli attuali leader della sinistra, che nella piazza trovano il loro solo ubi consistam e stanno preparandosi ad almeno un decennio di opposizione.
Chi l’avrebbe mai detto ai tempi del Pci che un giorno sarebbe arrivata una leader da Marte che avrebbe trasformato il Pd nella cinghia di trasmissione della Cgil, con uno scambio di ruoli che è un autentico cortocircuito politico. Del resto, la piazza e le gogne sono ormai i simboli del fallimento storico di una sinistra che trova l'unica ragione di esistere nell’arroccamento identitario, nella cultura del no e nella sostanziale rinuncia a diventare forza di governo, non abbandonando mai i vecchi vizi, e riconducendo ogni evento avverso a tentativo di restaurazione fascista, sia che si tratti di difendere i confini del proprio Paese da un’immigrazione incontrollata, sia quando si pone il problema di ammodernare le istituzioni con una riforma costituzionale. È una sorte toccata nel tempo prima a Bettino Craxi, accusato dal Pci di nazionalsocialismo, poi a Berlusconi e oggi a Meloni e Salvini. Nulla di nuovo, dunque: lo spettro di una restaurazione autoritaria, contro cui il Pd ha appena presentato ben due disegni di legge, è una teoria tenacemente sostenuta da un gruppo di intellettuali invecchiati secondo cui ormai viviamo in un’Italia «che puzza di fascismo» e in preda a un’inarrestabile deriva che, se non ha ancora rotto tutti gli argini legali, «sta però demolendo quelli culturali». Ora: i paragoni fatti con l’accetta della semplificazione storica hanno un peso abbastanza relativo se relegati nel recinto culturale dei maestri un po’ ammuffiti del pensiero post-sessantottino, ma assumono una valenza molto diversa - e anche irresponsabile - se a farli propri è il primo partito di opposizione.
Sembra passato un secolo dai tempi della «vocazione maggioritaria» di veltroniana memoria, ossia la base teorica del manifesto costitutivo che identificava il Pd come «partito del Paese, grande forza nazionale, in un bipolarismo nuovo, fondato su chiare alleanze per il governo e non più su coalizioni eterogenee, un partito che punta non a rappresentare questa o quella componente identitaria o sociale ma a porsi l'obiettivo di carattere generale di conquistare nel Paese i consensi necessari a portare avanti un programma di governo riformatore». Oggi invece nel «nuovo» Pd stanno prevalendo sia le pulsioni identitarie che il richiamo della foresta gauchista: piazza, antifascismo e diritti senza doveri. Avanti popolo dunque, anche se ora i compagni dovranno vedersela con la concorrenza del talk show targato De Girolamo.