il commento
Giudice di Catania, la sentenza che inficia la separazione dei poteri
Nella sentenza con cui il tribunale di Catania ha giudicato illegittimo il decreto del governo sulle espulsioni accelerate di quattro migranti ci sono alcuni passaggi quantomeno anomali (e bizzarri) per giustificare un simile provvedimento: uno dice di essere perseguitato dai cercatori d’oro del suo Paese per alcune caratteristiche fisiche che ha, cioè le linee della mano... Un altro per dissidi con i familiari della sua ragazza, un altro ancora per la mancanza di adeguate cure ospedaliere in Tunisia, l’ultimo per le minacce che avrebbe subito dai creditori. La giudice Apostolico ha però assicurato di aver deciso della sorte dei quattro stranieri sulla base di motivazioni «esclusivamente giuridiche», e non avremmo alcuna esitazione a crederle se nel recente passato non si fosse, diciamo così, un po' esposta politicamente promuovendo sulla sua bacheca Facebook una raccolta di firme per le dimissioni di Salvini dal Viminale, invocando una «sinistra più a sinistra di Nichi Vendola» e invitando a partecipare ad alcune manifestazioni di Rifondazione comunista. La libertà di pensiero è sacra anche per i magistrati, ma è altrettanto sacro il nostro diritto al dubbio su una sentenza che odora di politica come l’incenso odora di sacrestia, e in questo senso il cognome Apostolico fa anche pendant. In questi giorni tanti, a sinistra, hanno preso le difese della giudice in nome della separazione dei poteri, anch’essa ovviamente sacra in questa Repubblica, scrivendo che la premier Meloni ha travisato il contenuto della sentenza, in quanto la frase sui cercatori d’oro è semplicemente riportata tra le premesse del provvedimento e non viene ripresa nelle motivazioni (una distinzione, se mi è consentito, un po’ da Azzeccagarbugli). Non solo: si è fatto notare che la giudice non dichiara affatto la Tunisia Paese non sicuro, ma sottolinea che alla luce della Costituzione e delle norme europee «deve escludersi che la mera provenienza del richiedente asilo da Paese di origine sicuro possa automaticamente privare il richiedente del diritto a fare ingresso nel territorio italiano per richiedere protezione internazionale». Anche qui, ci si arrampica sugli specchi su una questione di lana caprina: se non è zuppa, è pan bagnato!
Su una cosa almeno la sinistra dovrebbe convenire: dichiarare un Paese non sicuro è compito che non spetta sicuramente alla magistratura. Invece il partito unificato delle procure mette in dubbio anche questo, e invito chi avesse ancora dubbi in proposito a leggere quello che ha scritto il tribunale di Firenze, che si è apertamente arrogato (carta canta) il diritto di dichiarare la Tunisia «Paese non sicuro». Lo ha fatto esaminando il caso di un altro migrante tunisino che pure, per giustificare la legittimità della sua richiesta di asilo, non si era dichiarato vittima di particolari persecuzioni, ma aveva posto attraverso i suoi legali una questione più complessiva: «La grave crisi socioeconomica, sanitaria, idrica e alimentare, nonché l’involuzione autoritaria e la crisi politica in atto sono tali da rendere obsoleta la valutazione di sicurezza compiuta a marzo dal governo italiano». Ma può un tribunale sindacare la valutazione di sicurezza di un Paese fatta dal governo? Avendo studiato un po’ di diritto costituzionale mi verrebbe di rispondere no, ma i giudici fiorentini non hanno questo scrupolo: scrivono infatti che non solo può, ma «deve». E che importa se l’Unione europea consente ai governi di stilare liste di Paesi sicuri autorizzando per tutti gli altri regole semplificate per il rimpatrio? «Il sacrificio dei diritti dei richiedenti asilo non esonera il giudice dal generale obbligo di verifica e motivazione in ordine ai profili di sicurezza del Paese». E qui arriva il paradosso: il tribunale di Firenze sostiene beffardamente che la «separazione dei poteri» resta fuori discussione, e che non ha alcuna velleità di invadere la sfera politica. Ma al giudice spetterebbe una «garanzia di legalità supplementare» in ossequio a norme internazionali e costituzionali «che prevalgono sui decreti del governo» (ma la Costituzione non limita forse il diritto d’asilo allo straniero a cui sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche?... forse ho letto male).
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Quindi la magistratura, da Catania a Firenze, sta motu proprio costruendo una Costituzione materiale secondo cui sulla politica internazionale il parere dei giudici prevale sulle scelte del governo, in barba proprio alla separazione dei poteri di Montesquieu, sconfinando così nel campo dell’anarchia istituzionale, con un ordine dello Stato che si autoassegna il diritto non solo di non rispettare le leggi dello Stato, ma anche di imporre le sue scelte al governo. Ma non c’è da stupirsi, e sulla questione migratoria non possono che tornare alla mente le parole del procuratore capo di Viterbo Auriemma nella conversazione intercettata con l’allora presidente dell’Anm Palamara: «Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando: illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministro dell'Interno interviene perché questo non avvenga, e non capisco cosa c'entri la Procura di Agrigento. Sbaglio?». E la risposta di Palamara fu illuminante: «No, hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo». Un comandamento molto poco apostolico.