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Migranti, le toghe rosse scendono in campo contro il "regime"

Riccardo Mazzoni
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Com’era ampiamente previsto e prevedibile, un tribunale della Repubblica - quello di Catania - appellandosi al diritto comunitario e alla Costituzione, ha già «liberato» alcuni migranti da un centro per il rimpatrio ritenendo il decreto del governo illegittimo in più parti. Un pronunciamento che rischia di vanificare la stretta decisa sulla gestione delle domande d'asilo, aprendo così il vaso di Pandora dei ricorsi. E qui si torna a un dilemma antico quanto le leggi sull’immigrazione: la gestione dei flussi spetta ai governi e quindi alla politica, o alla magistratura? La risposta dovrebbe essere scontata, ma in Italia non lo è affatto, come dimostra plasticamente la sorte della legge Bossi-Fini, che è stata totalmente boicottata dai magistrati di mezza Italia con una raffica di eccezioni di incostituzionalità che hanno bloccato di fatto le espulsioni.

 

 

 

I precedenti sono innumerevoli: qualche anno fa il procuratore di Agrigento rivendicò, ad esempio, che a dodicimila iscrizioni nel registro degli indagati per il reato di clandestinità – sulla cui reale efficacia si può discutere, ma che era previsto da una legge approvata dal Parlamento - erano seguite altrettante richieste di archiviazione. La stessa Cassazione, con una sentenza paradossale, sancì che un extracomunitario espulso poteva rientrare impunemente in Italia se sposava una cittadina italiana, facendo prevalere il diritto al ricongiungimento familiare sulla sicurezza del Paese. Ma non c’è solo la battaglia ideologica sull’immigrazione: con il centrodestra al governo le toghe rosse sono scese subito in trincea «contro i segnali di tirannia della maggioranza», ed è già partito l’appello a «resistere alla restaurazione uscendo dalle aule dei tribunali». Sono passati quasi trent’anni dal «resistere, resistere, resistere» del procuratore Borrelli contro Berlusconi, ma nulla è cambiato, complice l’inanità della politica che non è mai riuscita a riformare la giustizia.

I segnali giunti dal congresso palermitano di Area, la corrente di sinistra della magistratura, per capire l’aria che tira: il segretario uscente Eugenio Albamonte ha infatti scelto il modo più dirompente per congedarsi dall’incarico, scagliandosi contro le riforme di Nordio come un fiume in piena: le imputazioni vanno dai paragoni con l’Ungheria di Orban, con l’America di Trump, con Israele di Netanyahu e perfino con la Tunisia di Saied, e prefigurano come «soluzione finale» l’attacco agli organi di garanzia e alla giurisdizione. Sotto minaccia ci sarebbero la Corte Costituzionale, la Procura antimafia e il Quirinale che «pare essere finito nel mirino», frase insinuante ma senza prove, classica dei processi indiziari, o meglio dei teoremi tanto cari alla magistratura inquirente. Albamonte ha svolto una relazione tutta «politica»: no all’abolizione dell’abuso d’ufficio, no alla separazione delle carriere, no alla riforma delle intercettazioni, no al ritorno alla vecchia prescrizione e, udite udite, no anche al «maggioritarismo», ossia – par di capire - a qualsiasi riforma che rafforzi il potere esecutivo.

Una postura da partito di opposizione che non è certo una sorpresa, visto che i settori politicizzati della magistratura si sono sempre arroccati su posizioni ultraconservatrici e di chiusura pregiudiziale al centrodestra. Albamonte parla di democrazia liberale e del rischio di ritrovarsi un «potere dilagante», ma l'abc della democrazia dice che la legittimazione politica della maggioranza parlamentare è data dalla volontà popolare e non da una componente togata che si sente sovraordinata a tutti gli altri poteri e ha da tempo un deficit gravissimo di grammatica istituzionale. Non si spiega altrimenti l’accusa alla maggioranza di pretendere dai giudici «un dovere di terzietà che aveva forse campo nell’epoca del regime». Eppure è l’articolo 111 della Costituzione a stabilire tra gli elementi essenziali del giusto processo proprio i requisiti della terzietà e dell’imparzialità del giudice, garanzie della serenità, dell’equilibrio, del distacco e dell’indipendenza di giudizio del singolo giudice rispetto alle parti e all’oggetto della controversia. Ma sulle barricate tutto è consentito: anche confondere la Costituzione repubblicana col fascismo.

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