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Lo spartito di Mattarella: in Italia è impossibile fare riforme

Cicisbeo
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Come era purtroppo prevedibile, dopo il «la» dato da Mattarella agitando la sua autorevole bacchetta nella pastorale intonata al meeting di Cl, l’orchestra dei musicanti ideologici ha subito riavviato il concerto grosso contro le riforme istituzionali: il presidente, che nei suoi interventi usa sempre il metronomo dell’adagio, in realtà a Rimini si è espresso con i toni del Prestissimo, che sul pentagramma musicale significano successione rapida di note, dando il segnale della massima urgenza. E l’urgenza, in questo caso, è in tutta evidenza quella di mettere in guardia la maggioranza parlamentare eletta dopo regolari elezioni dall’attuare il suo programma di governo. «Siamo alle solite» – ho scritto ieri, e scusate l’autocitazione, in questo Paese le riforme non s’hanno da fare perché alla fine prevale sempre la grancassa assordante della democrazia in pericolo. Non è un caso, insomma, se le Bicamerali sono regolarmente fallite, e se l’unica vera revisione costituzionale andata in porto è stata quella del Titolo V, votata con un blitz dalla sinistra, che ha rischiato di sfasciare lo Stato unitario. Perché la sinistra resta leninisticamente convinta di essere la depositaria insostituibile della legittimazione politica, con una concezione padronale della democrazia. Non era dunque difficile prevedere che, avendo Mattarella aperto l’otre dei venti, ieri si sarebbe scatenata una tempesta tanto surreale quanto pericolosa, mischiando in una improbabile macedonia il premierato del centrodestra con i proclami del generale Vannacci, che con le riforme istituzionali c’entra come il cavolo a merenda. E dunque, ecco il campionario dei frutti avvelenati che la stampa progressista, omaggiando il Quirinale, ha distribuito ai suoi lettori nell’ultima domenica di agosto. «La Costituzione sotto attacco» è stato il minimo sindacale di questa mobilitazione democratica, con la Stampa e la Repubblica già in trincea con l’elmetto partigiano.

 

 

 

L’ineffabile direttore Giannini ha parlato di «avviso ai patrioti che intorno alla Costituzione trafficano e si accingono a banchettare allegramente». Capito? Se il centrodestra presenta una proposta di riforme neanche originale, visto che compariva tra quelle su cui lavorò anche la Bicamerale d’Alema, non esercita un suo diritto, ma banchetta come i Proci nel Palazzo di Ulisse, al che par di capire che Mattarella sia una novella Penelope chiamata a disfare la tela della maggioranza! E poi, la maggioranza annuncia l’accorso sul premierato forte? «Segnale ancora più inquietante», perché il rafforzamento dell’esecutivo e l’elezione diretta del presidente del consiglio «destabilizzano Mattarella e depotenziano il Parlamento». Del resto, un giornale che nei giorni scorsi, a firma Annunziata, ha scritto che «Meloni scimmiotta le manipolazioni del reale di Trump e ora minaccia di terremotare il sistema nascondendo la sua debolezza politica dietro un atto di forza apparente», cos’altro potrebbe dire? Ma attenzione, il meglio, ovvero il peggio, deve ancora arrivare, perché la conclusione è tranciante: si apre una fase in cui, per fermare le destre, «non basteranno più né la moral suasion né le prediche bellissime come quella di Rimini», per cui Mattarella dovrà per forza di cose trasformarsi in capo dell’opposizione, costi quel che costi. Magari brigando per depotenziare la maggioranza, come fece Napolitano con Berlusconi, e far approdare la Repubblica a un nuovo governo tecnico o di impossibili larghe intese? Chissà. Dietro a questi astrusi ragionamenti c’è la convinzione – legittima, ci mancherebbe altro che il premierato forte squilibri la Costituzione, ma c’è un altro bizzarro concetto come questo, letto sempre ieri: «Si fa sempre più strada l’idea che la democrazia si identifichi soltanto con il voto e che l’eletto sia legittimato a fare tutto. Le riforme rischiano di snaturare il ruolo delle Camere con formule elettorali che favoriscono la maggioranza, innescando così “derive sudamericane”». Ebbene: qui, nel nobile intento di salvare la democrazia si arriva addirittura a negarne l’essenza, ossia il voto, espressione della volontà popolare. In una Repubblica che nella sua breve vita ha già visto passare 68 governi, nessun presidente del consiglio ha mai potuto neppure attuare tutto il suo programma di governo, avendo molteplici contrappesi, e la preoccupazione dovrebbe essere quella di favorire la governabilità, non certo il suo contrario. Ma siamo sempre lì: l’elogio per Mattarella che ha posto «i paletti all’estremismo delle destre». Un’ossessione patologica di cui sarà difficile liberarsi.

 

 

Tra l’altro, questa opposizione in parte massimalista, in parte confusionaria, riesce a dividersi anche sul premierato: esiste infatti una corrente favorevole a rafforzare il ruolo del premier trasformandolo in un cancelliere sovraordinato rispetto ai ministri e stabilizzato dalla sfiducia costruttiva, salvaguardando così «la preziosa funzione neutra del capo dello Stato». Ma c’è anche chi predice «l’impossibile convivenza tra un premier eletto dal popolo e una controfigura di presidente di investitura parlamentare» che darebbe vita a un conflitto permanente, dominato dal premier. Comunque la si rigiri, è un gattopardismo rivisitato: nulla cambi perché nulla cambi. Forse tutti costoro dovrebbero rileggersi il Calamandrei padre costituente, che a quanto mi ricordo non era né un patriota né un golpista da deriva sudamericana: «...Credete voi - disse - che si possa continuare a governare l’Italia con una struttura di governo parlamentare, come sarà quella proposta dal progetto della Costituzione...?». Se si dovrà andare avanti con governi di coalizione, «allora bisognerà cercare strumenti costituzionali che corrispondano a questo diverso presupposto... Per questo noi avevamo sostenuto qualche cosa che assomigliasse ad una Repubblica presidenziale o perlomeno a un governo presidenziale in cui si riuscisse, con appositi espedienti costituzionali, a rendere più stabili e più durature le coalizioni... Ma di questo, che è il fondamentale problema della democrazia, cioè la stabilità del governo, nel progetto non c’è quasi nulla». Basta questo per dire che questa volta il direttore d’orchestra Mattarella ha sbagliato spartito?

 

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