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I primi giorni "rossi" del compagno Patrick Zaki

Cicisbeo
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Una volta liberato dopo tre anni di calvario nelle carceri egiziane, grazie soprattutto all’impegno del governo italiano, Patrick Zaki ha fatto un vero e proprio slalom per evitare di stringere la mano a Meloni e Tajani, i suoi liberatori, specificando che la scelta di rientrare in Italia con un volo di linea e di festeggiare a Bologna doveva essere un preciso messaggio politico. In questi giorni si è discettato molto sulla mancanza di rispetto nei confronti del governo italiano e sull’ideologia che ha prevalso sulla riconoscenza. Ma indugiare su rispetto e riconoscenza è un esercizio abbastanza inutile, visto che sono categorie ormai obsolete. Né la premier né il ministro degli Esteri avevano peraltro programmato passerelle per l’arrivo del perseguitato, in linea con la prudenza diplomatica che aveva permesso di convincere il presidente Al-Sisi a concedere la grazia.

 

Il rientro per vie istituzionali non sarebbe stato dunque una forzatura, ma il fisiologico capitolo finale di una questione trattata e risolta ai massimi livelli fra Italia e Egitto. Ma il compagno Zaki ha preferito connotare politicamente, colorandoli di rosso, i suoi primi giorni di libertà, concedendosi solo alla piazza di Bologna, quella per intenderci dove nacquero le Sardine, e questo dice tutto. Scelta legittima ma volutamente sopra le righe, che lo ha sovraesposto suscitando gli osanna interessati di una sinistra imbarazzante per l’inaudito rifiuto di riconoscere anche un solo merito del governo in questa complicatissima vicenda, a tratti molto prossima a una crisi diplomatica. Sarebbe servita, insomma, maggiore cautela per far decantare la situazione prima che la sinistra si impossessasse di Zaki facendone un proprio vessillo ideologico (è già partita la corsa ad accaparrarselo in vista delle europee...).

 

Nell’intervista rilasciata ieri al Corriere della sera, il giovane Patrick si è schermito di fronte all’ipotesi di un suo impegno politico, dicendo di avere ancora molto da imparare e da fare. «E se anche arrivasse una richiesta per un ruolo politico la utilizzerei sempre per la causa dei diritti umani. Anche tutta questa visibilità: voglio che diventi uno strumento, la voglio usare per difendere chi non ha voce né volto, e magari è in una cella da anni come prigioniero di coscienza. Non importa se nel mio Paese o altrove». Proposito nobilissimo e in linea con la sua storia, ma la domanda che forse dovrebbe porsi è se tutta la prevedibile visibilità che gli è piovuta addosso, ma che lui ha alimentato con la sua entrata a gamba tesa sul governo italiano, non finisca per danneggiare proprio chi è ancora in carcere in Egitto per aver difeso i diritti umani. Una battaglia sacrosanta ma che – come dovrebbe avergli insegnato il caso di cui è stato protagonista e vittima – va condotta «cum grano salis», evitando protagonismi e proclami improvvidi. 

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