Usa, Kissinger e la missione “personale” in Cina
«Il popolo cinese non dimentica un vecchio amico, ricorderò sempre il suo contributo storico all’amicizia tra Cina e Stati Uniti». È così che, davanti alle telecamere della Tv di Stato, Xi Jinping ha chiuso il suo caldo benvenuto al neo-centenario Henry Kissinger, l’occidentale che più di ogni altro conosce i meandri della diplomazia cinese, da quando nel luglio del 1971 sbarcò in gran segreto per aprire una lunga era di relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Repubblica popolare. E allora come oggi, il suo obiettivo strategico è sempre stato lo stesso: scongiurare un asse di ferro tra Pechino e Mosca, ai tempi di Breznev per vincere la prima Guerra Fredda con l’Unione Sovietica, e 52 anni dopo per evitare che una seconda possa precipitare il mondo in una catastrofe nucleare. Kissinger è arrivato a Pechino senza il consenso dell’amministrazione Biden, dopo le fallimentari missioni di tre prestigiosi inviati del presidente - nell’ordine il ministro della Difesa Austin, il segretario al Tesoro Yellen e il segretario di Stato Blinken – e a differenza di loro è stato ricevuto con tutti gli onori nella residenza estiva dei presidenti cinesi, sulla scorta di credenziali maturate in mezzo secolo di realpolitik che gli hanno permesso di restare sulla scena mondiale anche senza ricoprire più incarichi ufficiali.
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Di lui, ebreo tedesco fuggito nel ’38 dalla Germania di Hitler, si è detto e scritto tutto il bene e tutto il male possibile: seppe tirar fuori l’America dal pantano del Vietnam, e spiazzando Mosca consentì a Nixon di presentarsi alle elezioni del 1972 come il salvatore della patria che aveva rimediato ai guasti di Kennedy e di Johnson; ma diventò l’uomo nero delle sinistre mondiali quando diede via libera al golpe di Pinochet in Cile, nella convinzione che stesse per diventare una seconda Cuba, il che cozzava con la sua teoria delle relazioni internazionali, quella secondo cui, dopo la spartizione di Yalta, le grandi potenze erano libere di intervenire senza interferenze nel proprio cortile di casa. Un cinismo all’ennesima potenza che consentì però di tenere in equilibrio il mondo nel terribile secolo breve, anche a costo di sacrificare le dinamiche democratiche nei singoli Paesi. Anche in questo, Kissinger è stato dunque un perfetto epigono di Richelieu, di Talleyrand e di Metternich, il cancelliere che al Congresso di Vienna impedì che si rompesse l’equilibrio in Europa col ritorno della Rivoluzione: l’importante è sempre il risultato, insomma. E per ottenerlo, ha usato tutti i mezzi più ruvidi della diplomazia: ne seppe qualcosa Aldo Moro, che lo incontrò a Washington come ministro degli Esteri e fu letteralmente maltrattato per l’apertura al Pci agli albori del compromesso storico. Come sferzante fu il suo giudizio della Germania: «Un gigante economico, un nano politico, un verme militare».
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Anche all’inizio della crisi ucraina, Kissinger aveva mostrato di saper guardare più in là del naso occidentale, analizzando in profondità le cause del conflitto, ricordando che nel 2014 si era detto contrario ai piani per far entrare Kiev nella Nato, e che proprio da lì iniziò una serie di eventi culminati nella guerra: «La colpa non è solo della Russia» – concluse, assumendo con coraggio una posizione considerata eretica (anche se oggi è convinto che la resistenza ucraina debba essere sostenuta con tutti i mezzi). Ecco: la missione «personale» in Cina è un altro seme gettato nel terreno scosceso del disordine mondiale da un grande vecchio che, dal proscenio o da dietro il palco, ha sempre tenuto a bada i cavalieri dell’apocalisse. Chapeau.
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