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Scuola, dilaga l'ignoranza: se il vate D'Annunzio diventa estetista

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Cicisbeo
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Pascoli? Un pittore. Garibaldi? Uno scrittore. Mattarella? Chi era costui? Anche quest’anno Skuola.net ha raccolto le perle degli orali di maturità, e il campionario degli orrori diventa sempre più variegato e, diciamolo con franchezza, anche un po’ inquietante, perché ci spalanca davanti agli occhi un abisso d’ignoranza che imporrebbe una riflessione quasi esistenziale: dove sta andando la scuola italiana? Se un maturando definisce il vate D’Annunzio «un estetista», ed è quindi intimamente convinto che il Vittoriale sia un salone di bellezza, e l’impresa di Fiume una mossa pubblicitaria. Se un altro attribuisce all’eroe dei due mondi la paternità della Divina Commedia, mettendo magari Dante a capo dei Mille, c’è più di qualcosa che non torna nel nostro sistema scolastico. Saranno, infatti, anche eccezioni che confermano la regola, ma è lecito chiedersi come mai studenti così privi dei fondamentali siano potuti approdare all’esame di maturità, dove peraltro la percentuale dei promossi è da tempo al livello di affluenza elettorale dei bulgari ai tempi del comunismo: altissima.

 

 

Ma andiamo avanti: sempre in tema di letteratura, un candidato ha confuso l’Infinito di Leopardi con il viaggio nel tempo di Benigni e Troisi, ma con un salto nel futuro, collocando il genio di Recanati tra i poeti del Novecento (un dettaglio, tutto sommato, dopo che un altro aveva confuso la siepe leopardiana con un cespuglio...). Non ci resta che piangere, insomma, come davanti alla surreale risposta su quale fosse un’opera di primo piano di Pirandello: «Uno, nessuno, duecentocinquantamila». Che dire? Quando l’autore - e premio Nobel - definì questo ultimo romanzo come «il più amaro di tutti, profondamente umoristico», mai avrebbe pensato che qualcuno, un secolo dopo, ne avrebbe tratto una barzelletta con la moltiplicazione dei centomila. E nemmeno Pascoli, di sicuro, quando scrisse «X Agosto», la poesia simbolicamente più intima sui temi del male e del dolore, si sarebbe immaginato di vedere un giorno scambiato quel dieci romano in un «per», a proposito di indebite incursioni della matematica nella letteratura.

 

 

Se poi scantoniamo nella storia, si va di male in peggio: apprendiamo solo ora infatti che i fasci di combattimento di Mussolini avevano ideali di sinistra, che durante il nazismo gli ebrei venivano rinchiusi nei campi di «concentrazione» e che l’origine delle leggi marziali va attribuita a Marco Valerio Marziale, come se i suoi epigrammi - dardi scagliati contro il potere - avessero invece ispirato le dittature. Meglio fermarsi qui: sappiamo bene che la geografia ormai non si insegna quasi più, che i ragazzi non distinguono più gli Appennini dalle Ande, e non possiamo neppure scordare che per un anno perfino la storia fu esclusa dalla maturità, né che una corrente di pensiero (bacato) ritiene ormai latino e greco lingue morte e inutili, come il loro insegnamento al liceo. Sono frutti avvelenati di una scuola che ha abbassato i livelli d’insegnamento cancellando meriti, capacità e inclinazioni, fino a bollare questi valori come parametri classisti, nel solco di un Sessantotto che non vuol mai finire, coi suoi «sei politici» e la guerra al nozionismo, considerato un’arma reazionaria di repressione, come l’obbligo di imparare le poesie a memoria. I risultati sono questi: sforniamo diplomati bocciati ai test Invalsi e laureati che non conoscono l’ortografia. Del resto, siamo il Paese che ha perfino creduto a Beppe Grillo quando diceva che uno vale uno e ha mandato al governo una classe di governo da scolarizzare. Di cosa ci stupiamo, dunque?

 

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