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Silvio Berlusconi, un sacrilegio occupare la sua poltrona

Cicisbeo

Negli anni Sessanta un’iconica pubblicità televisiva reclamizzava la China Martini, con Ernesto Calindri e Franco Vol piche nelle vesti di un gentiluomo e di un ufficiale, nell’Italia di fine ‘800, passavano in rassegna le nuove mode concludendo sempre: «Non dura, dura minga, non può durare». Fra queste novità una volta comparve anche il calcio primordiale di quei tempi, per il quale la sentenza fu la stessa: dura minga. Invece il calcio, con i suoi campioni e la sua epopea, ha segnato storia e costume del Novecento diventando il primo fenomeno globale: il mondo nel pallone, insomma. Ora avrà pure smarrito, in nome del dio denaro, certi antichi valori come l’attaccamento alla maglia, ma Eupalla, bizzarra regina del rettangolo di gioco, ha dettato una sempiterna regola aurea: quando un fuoriclasse chiude la carriera, in omaggio al genio che ha dipinto il campo di calcio come un quadro del Rinascimento, la sua maglia viene ritirata e messa in bacheca, perché come lui nessuna mamma ne farà più. È una grande lezione che il calcio, quel controverso mondo che intreccia gioco e miliardi, ha imparato e insegnato. E questo dovrebbe valere anche in politica, l’altro strano pianeta in cui più che il calcio si pratica il pugilato, dove i grandi leader in un secolo si contano sulle dita di una mano.

 

Il perché di questo lungo preambolo è presto detto: assisto in questi giorni a una tiritera a mio giudizio non necessaria- e molto spiacevole – tesa a sostituire la figura di Silvio Berlusconi alla presidenza di Forza Italia. Ma, come si evince dai fiumi di inchiostro sparsi dopo la sua morte, Berlusconi è stato un gigante così incredibilmente versatile, capace, furbo, poliedrico, anomalo, un irripetibile ossimoro la cui statura ha segnato trent’anni di storia e resterà nella storia, da non poter avere eredi. Né imprenditoriali, né soprattutto politici. Pertanto il consiglio non richiesto è quello di lasciare quel ruolo vacante ad libitum, per rispetto a lui, ai suoi elettori e al malcapitato che – per ambizione o incoscienza- avesse l’ambizione di sostituirlo. In quel vecchio spot l’ufficiale e il gentiluomo alla fine cantavano: «Fino dai tempi dei garibaldini, China Martini, China Martini»... Ecco: quando morì Garibaldi nessuno pensò mai di indossare la sua camicia rossa. Sarebbe stato un sacrilegio, come occupare la poltrona presidenziale di Silvio.